La vicenda del Monte dei Paschi: un aggiornamento doveroso

 

Questo il quadro finale dei reati contestati per le vicende del Monte dei Paschi di Siena. ( leggi il pezzo del sole 24 ore apparso in data 16 febbraio, qui sotto riportato per intero )

Forse varrebbe la pena di rileggere tutta la stampa e la pubblicistica del momento, rivedere le trasmissioni televisive, i talkshow, pesare le parole dei tanti opinionisti, le considerazioni sul sistema bancario, i linciaggi morali e politici, le aggressioni strumentali, le vigliaccate ordite per altri fini e scopi, le ingiurie corse per discreditare la città, la Toscana insomma le angherie subite dai dipendenti, dai dirigenti sulla malagestio finalizzata a chissa’ quali scopi e finalità.  Naturalmente ora nessuno più ne parla.

La domanda è la seguente: hanno fatto più danno i dirigenti rinviati a giudizio per le incaute operazioni gestionali che non arricchirono nessun se non il venditore della banca acquistata e la banca che si prestò per l’operazione di maquillage del Bilancio o la canea delle opinioni che si scatenò in argomentazioni che nessuna pertinenza avevano con il fatto specifico: una incauta operazione strategica costata più di quanto non dovesse con perdite di bilancio poi mascherate hanno dato luogo a due capi di imputazione specifici, il falso in bilancio e l’ostacolo di vigilanza.?

Tutti i giornali ed i giornalisti che firmarono i pezzi forse dovrebbero rivedere alcune loro opinioni e ridimensionare la vicenda nei termini in cui ebbe a verificarsi e per la quale scrissi alcune note su questo Blog in tempi non sospetti.

 

Http://www.quotidiano.ilsole24ore.com/ del 18 febbraio 2016

“Inchiesta Mps, il Pm chiede il processo per gli ex vertici” Chiesto il giudizio a Milano per Vigni, Mussari e altri 11 indagati

MILANO
Dopo un mese dalla chiusura delle indagini, arriva la richiesta dei procuratori di Milano per la maxi inchiesta sul Monte dei paschi di Siena, avviata a Siena e poi trasferiti alla procura meneghina. I pm Giordano Baggio, Stefano Civardi e Mauro Clerici chiedono il rinvio a giudizio per 13 indagati, tra cui l’ex presidente Giuseppe Mussari e l’ex dg Antonio Vigni, oltre all’ex responsabile finanziario Gianluca Baldassarri e all’ex capo dell’area finanza Daniele Pirondini.


I reati ipotizzati dalle indagini, condotte dal nucleo di Polizia Valutaria della Gdf, sono il falso in bilancio, l’aggiotaggio (motivo per cui l’inchiesta è stata trasferita a Milano) e l’ostacolo alla vigilanza relativamente ai contratti derivati Santorini (sottoscritto con Deutsche Bank), Alexandria (con Nomura), Chianti Classico, Nota Italia e l’operazione Fresh 2008 – quella che rese possibile l’aumento di capitale per l’acquisto di Banca Antonveneta nel 2008. 


A Milano dunque i fascicoli che risultavano prima separati – quello sui prodotti derivati e quello sull’acquisto di Antonveneta – sono stati riuniti in un unico dossier, con reati equiparabili. Il conto dei derivati, per gli inquirenti, è salato per Mps, che ha dovuto occultare 1,5 miliardi di perdite.


Nell’elenco degli indagati compaiono anche manager che risiedono a Londra, tra cui Raffaele Ricci, responsabile delle vendite per l’Europa e il Medio Oriente di Nomura, a cui viene attribuita la paternità del derivato Alexandria, concepito prima nell’istituto di credito Dresdner e poi rinegoziato una volta entrato nella banca giapponese. Ci sono anche Sayeed Sadeq, ex ceo di Nomura; Ivor Scott Dunbar, ex manager di Deutsche Bank e, in base alla legge 231 sulla responsabilità amministrativa, anche i tre istituti di credito coinvolti, Mps, Deutsche Bank e Nomura. 


Secondo la ricostruzione degli inquirenti i derivati sono serviti a camuffare le perdite reali, che nel 2008 erano pari a 645,3 milioni e nel 2009 pari a 362,4 milioni. Poi nel 2010 gli utili dichiarati erano stati 1,3 milioni a fronte di 781,3 milioni reali, mentre nel 2011 ci furono 6 milioni di perdite. Si sottolinea
«l’errata contabilizzazione nei prospetti 2008-2012» di Alexandria, Santorini e Nota Italia, che avrebbero dovute essere calcolati a saldi chiusi.


Per quanto riguarda la vendita di Fresh (obbligazioni convertibili in azioni), rimane l’impianto di indagine già evidenziato dai procuratori senesi e dal nucleo Valutario, 3 anni fa: l’operazione servì a “simulare” un aumento di capitale mentre invece si sarebbe trattato, in realtà, di un debito. «Non venivano descritti in modo compiuto i Fre
sh 2008 e non erano descritti i totale return swap sottoscritti da Fondazione Mps (allora azionista di controllo di Mps, ndr) e con i quali l’ente sottoscriveva indirettamente i Fresh 2008 per un ammontare pari a 490 milioni, lasciando intendere che i prodotti erano stati collocati solo con qualità creditizie». Il collocamento era stato realizzato da Jp Morgan.


La procura di Milano ha riunito tutto in un unico fascicolo con un filo logico: i derivati sarebbero serviti a nascondere (e quindi aggravare) il crollo di liquidità a seguito all’acquisizione di Antonveneta da parte dell’istituto senese, costata 9 miliardi, a cui si sono aggiunti 8 miliardi di finanziamenti per la normale attività bancaria presi in prestito da Abn Amro, proprietaria di Antonveneta. 


© RIPRODUZIONE RISERVATA


Sara Monaci

 

 

Agenda digitale e gestione d’impresa

AGENDA DIGITALE E GESTIONE D’IMPRESA

La gestione d’impresa non va mai disgiunta da un anelito di innovazione sistematica.

Chiamata questa, come si vuole, con il gergo largamento abusato di innovazione di prodotto, di processo, di cultura, di approccio al mercato, di finanza innovativa o altro impone al management di pensare sempre al nuovo come abitudine mentale.

La prassi operativa senza generazione di valore nelle piccole come nelle grandi cose porta, infatti, nel tempo le imprese al graduale indebolimento se non al declino.

Chi scrive sa per certi questi principi , per averle appresi da giovane nel 1979/80 nel ruolo di consulente interno della banca partecipando ai lavori del  Gruppo McKinsey, gruppo che all’epoca si presentava con nomi del calibro di Gian Emilio Osculati, Enrico Cucchiani, Alberto Amaglio ed altri, personaggi divenuti managers di eccellenza, a livello nazionale ed internazionale, posti in seguito a capo di grandi imprese bancarie, finanziare e di multinazionali.

La consulenza strategica era stata chiamata per riorganizzare gli assetti di Filiale con la costituzione di Aree funzionali per il governo del territorio e per ridefinire organigrammi, posizioni, ruoli nella rete. Da quei managers ha tratto l’insegnamento del fatto che il processo organizzativo e di innovazione deve essere un dato permanente delle aziende eccellenti.

Nel 1984 Osculati scrive il libro delle 7S “Organizzare con successo”; l’arte di gestire una azienda. Libro che pervenne in dono con l’invito a studiare ed a meditarne le applicazioni concrete. In anni successivi, dal 1988 in avanti, in occasione del progetto strategico dei sistemi informativi l’inesperto bancario aggiungeva alle prime nozioni di carattere generale un secondo insegnamento ancora più pregnante cosi declinabile: “se non si dispone di risorse e strumenti e idonei, l’anelito all‘innovazione raccomandata come modello o ancora come habitus culturale o persino come modulo di governance imposto da regolamentazioni speciali ( nelle banche come anche nelle aziende ) da solo non porta a nulla. [1][2]

Il materiale di studio

Non è un caso che ancora oggi gran parte delle fonti disponibili in rete di ogni genere, delle tante società di consulenza e le fonti delle università di rango, utili anche per fare convegni e presentazioni o per scrivere altri libri, alla base ed a fondamento della parola “innovazione”, abbiano un unicum condiviso: indicano cioè sempre modalità di processo nuove, coerenti con i tempi e i mercati che insistono su investimenti in IT – information tecnology, Tl-c Telecommunication  e softwares.

Con questi ultimi in particolare si ridisegnano i processi operativi, gestionali e strategici ( Bpr- business process reengineering) con applicazioni scritte e pensate da chi ha la padronanza assoluta delle materie di riferimento sulla base delle indicazioni target dell’alta direzione delle aziende se non addirittura dei Consigli di amministrazione.

Non c’è, infine, rivista mensile prodotta da ognuna di queste società di consulenza e dalle Università di rango, nazionali o estere, che non ripeta forte l’invito per i managers di ricercare sempre l’impiego di risorse strumentali innovative, non disgiunte dalla rivisitazione dei processi supportati da applicazioni coerenti con il nuovo disegno sotteso.

L’angolo di osservazione delle posizioni [3]ricoperte in azienda da chi scrive, nelle quali risiedevano per definizione obiettivi di cambiamento, ha rafforzato quel convincimento e quelle nozioni.

L’azienda non avrebbe potuto portato a casa nulla di nuovo se nella gestione del ruolo con responsabilità di risultati non si fosse potuto disporre e contare sugli “strumenti” della innovazione costituiti dalle leve sostanziali, utili per imporre il cambiamento.

Imporre il cambiamento e non suggerire.

Le leve ( Information technology, Tlc telecomunication e softwares ) rappresentano il grimaldello per scardinare burocrazia, prassi, posizioni di rendita, comportamenti , parassitismi etc etc e per produrre reale innovazione pur con le inevitabili controindicazioni che generano migrazione di uomini e talvolta anche snellimenti non condivisi dalle controparti sindacali.

Chi nella banca non si occupa di credito, di commerciale e di finanza di fatto non appare, vive nell’ombra: ma se sta nella supply chain  con poteri riesce a guidare la macchina e contribuisce a dare le accelerazioni giuste.

La azienda delle persone neppure si accorge giorno per giorno, dei profondi cambiamenti che arrivano, che li riguarda e che modificano il sistema di lavoro di riferimento. [4]

Un caso concreto.

 Nel 1996, dopo i noti eventi della Bad Bank , il Banco di Napoli imboccò la strada di una innovazione radicale :dieci i progetti strutturali[5] che ne cambiarono il volto e l’assetto funzionale. Contribuirono a modificare all’esterno la percezione ed il valore. Nei fatti si ridiede un diverso assetto alle funzioni commerciali ed alla rete, cioè agli sportelli e di conseguenza anche alla direzione generale nelle rispettive aree di governance: commerciale, credito, finanza.

Tutti i progetti ebbero a supporto ricche implementazioni nei sistemi informativi.

Sarà stato anche a cagione di ciò ed una cosa si può ben dire: il valore iniziale del nuovo corso dopo la pulizia dei crediti era stato nel 1996, al 31 12 a chiusura di bilancio, di circa 60 miliardi; richiese per sopravvivere una ricapitalizzazione di circa 2000 miliardi con l’apporto di fondi nuovi. Ma nel 2001, alla fine della corsa durata 5 anni e di tutti i progetti portati a termine, il prezzo di vendita divenne di miliardi 6000 circa. In quel dato finale va sicuramente individuato parte del goodwill connesso ai grandi cambiamenti ed alle innovazioni resi possibili con gli investimenti che avevano consentito anche adeguati snellimenti e pulizie; cioè era stato fatto un buon “LEAN”.[6]

Buona parte di quel goodwill nasceva dalla rinnovata capacità di gestire il mercato ricostruita attraverso il ridisegno di tutte le funzioni, soprattutto nei processi di filiale, supportati da adeguati e riscritti sistemi legati all’uso della risorsa tecnologica. Senza information Technology nulla sarebbe stato possibile né prima né dopo. Per questo progetto la banca si avvalse della Boston Consulting Group, leader nel mercato mondiale delle strategie commerciali. Il gruppo di consulenti contava sull’apporto di un team di eccellenza guidato da un leader partner: Massimo Busetti.

 

Un piccolo confronto con le esigenze della nostra società e con la Agenda digitale

Questa è la ragione che induce a coltivare e ad insistere sulla focalizzazione della mission manageriale sull’Agenda digitale nazionale[7], mission che deve riguardare tutte le posizioni di governance nella pubblica amministrazione e nel settore pubblico allargato e nelle imprese private.

Per portare risultati concreti nella società e nelle aziende occorre far parlare tutti di Agenda digitale,  anche i cittadini.

Ed occorre individuare centri che, a collaterale della stessa pubblica amministrazione, si facciano facilitatori e carico di questa mission informativa e divulgativa.

Tutti lo sanno, tutti lo dicono, tutti fanno congressi sul cambiamento ma il cambiamento non avviene.

Perché? perché l’Italia non cambia, la Pubblica amministrazione non cambia, le università non cambiano, i cittadini non cambiano ?

La risposta non è difficile. Non c’è una diffusa e consapevole informazione, non degli addetti ai lavori che si autorefenziano e che spesso fanno ciò che serve solo a loro, ma dei destinatari delle diverse agende nei “diversi settori” applicativi della vita: che sono tanti quante sono le aree nelle quali il cittadino si pone come controparte o soggetto attivo,  in qualità di civis digitale, di soggetto destinatario dei nuovi diritti dello status di cittadino digitale in una società che deve puntare per competere in una Europa che corre e che cammina ad una velocità diversa ( per non dire di altre zone nel mondo ) sullo sviluppo delle cinque “E” scritte già nel trattato sull’Unione Europea del 1993 e ribadite nel successivo trattato di Lisbona del 2007 :  E-gov. E-healt, E-learning, E-Commerce, E-enterprise.

Gli esempi sbagliati

Spesso per disseminare incertezze e indebolire il processo si fanno esempi sbagliati ( è capitato recentemente e perciò si cita il caso); si indica la Giustizia, che ha tanti altri problemi, come pecora nera in negativo del processo digitale. La giustizia, evvero, ha un ritardo decennale, ma ora è un cantiere enorme, è in itinere ed è a grande impatto e sta sconvolgendo la società del diritto.

Nelle relazioni dei giudici della suprema Corte di Cassazione di qualche giorno fa se ne è fatta una interessante rappresentazione e sono stati dati tutti i numeri dei processi e dei risparmi già conseguiti da parte di tutti. [8]

Forse sarebbe bene parlare, pertanto, avendo a disposizione fonti e documentazioni ed averle lette.

In altri termini alcune resistenze sono state fiaccate cosi come sono stati forniti anche gli strumenti; magistrati ed avvocati sono ora alla frontiera di un nuovo secolo. I dati parlano da soli. I cittadini utenti forse non sanno che anche ad essi è consentito seguire l’evoluzione delle cause che li riguardano.

Quindi non si può continuare, come si legge, a fare l’esempio della duplicazione della documentazione anche attraverso il cartaceo, cioè dei casi limite, frutto di decisioni di taluni tribunali su cui certa stampa ha fatto ricami.

Anche i giornali ci mettono del loro per non aiutare. Sulla serietà sino in fondo e sulla verità sino in fondo dei giornali c’è talvolta da dubitare.

Anche la stampa deve subire il poderoso processo di innovazione che non è senza tecnologie. L’agenda delle società editrici è in grosso affanno deve prendere piede altrimenti le testate scompaiono o scoppiano. Occorre leggere i numeri che li riguardano per capire. La caduta nella vendita dei giornali, non compensata dalla crescita delle testate on line, diventati appena 3,2 milioni di copie a livello nazionale la dice tutta. In un anno il settore ha  fatto registrare un meno 400 mila copie.  Forse anche l’editoria deve prendere atto, come sembra stia accadendo, che ha bisogno di un’agenda digitale che alzi soprattutto il livello qualitativo all’informazione su cui c’è tanto da riflettere.

Il benaltrismo altro tentativo per menare il cane per l’aia.

C’è poi chi invece vorrebbe dall’innovazione ancora di più: cioè il ben altro, frutto della filosofia del benaltrismo. Chi evoca grandi disegni strategici inattuabili con le risorse che si hanno sottomano non si sofferma troppo sulle esigenze attuali. Le grandi novità hanno i loro tempi di incubazione e prima di diventare “fatti” abbisognano di tanti elementi a contorno, prima di tutto di un sistema di produzione e di gestione di adeguato livello che in Italia, si sa, non c’è avendo noi tanti anni fa rinunziato ad investire nelle aziende di It strategiche e nelle grandi aziende di sviluppo del softwares. Olivetti insegna. Siamo una società/ nazione dipendente senza players nazionali. E meno male che c’è tanto interesse per le nostre cose al punto che l’ultima società di software italiana, la Engeneering spa, sta per passare di mano e cosi potremo finalmente dire di non disporre di nessuna azienda strategica con la governance stretta nelle mani di imprenditori nazionali.

Dobbiamo perciò, forse, essere un pò più umili e concreti prima di invocare altre opportunità quali ” l’internet 4.0 o l’internet degli oggetti”, naturalmente in mani altrui, frutto di aspirazioni apprezzabilissime che danno  solo l’idea della cultura in movimento da parte di chi ne parla.

Sarebbe, quindi, molto meglio focalizzarsi su un minimo di agenda digitale, anche cittadina se serve alla collettività di riferimento, in un’Italia  che stenta , aiutando a demolire le tante resistenze ancora in campo perché i cittadini, i veri fruitori dei vantaggi finali, sono tenuti lontani  dalle informazioni giuste.

Che sono quelle che riguardano la pubblica amministrazione dei burocrati, delle dirigenze nascoste, della medicina che si scontra sulle scartoffie dei meandri amministrativi e delle imprese che non fanno dell’innovazione la loro leva fondamentale ,sempre preoccupate di non rendere trasparenti i loro bilanci e le loro caratteristiche, specie nel nostro mezzogiorno. Ragione quest’ultima che spesso priva le imprese della possibilità ed opportunità di accedere alle fonti finanziarie agevolate che prevedono la massima trasparenza e leggibilità dei loro dati.

 

Un cenno alla innovazione strutturale di Sistema, cioè degli assetti

 Anche questa nota nasce da un utile confronto sul tema della innovazione come spinta a produrre cambiamenti

Tutto quanto innanzi non esclude ma anzi postula come prioritaria l “innovazione strutturale della società”.

E’ questo un discorso diverso ? No; è solo di più alto profilo politico e di cambiamento radicale perché riferito al quadro socio economico e delle regole istituzionali.

La “Mazzuccato”, nel suo volume lo Stato innovatore, ad esempio, ma lo fanno anche altri autori, ripropone paradigmi sul ruolo dello Stato che solo sino a qualche anno fa venivano considerate bestemmie dal liberismo. E’ una visione che deve naturalmente fare i conti con la UE.

E’, quella della Mazzuccato, una proposta innovativa di fondo sul ruolo dello Stato; che viene molto prima di tutte le altre. E’ molto stimolante perché rimette nelle mani dello Stato leve importanti della innovazione quando esse non possano essere curate e coltivate dai protagonisti dell’economia reale: imprese e soggetti privati che per definizione hanno ruoli limitati e poco incisivi.

Non è un caso che il secondo capitolo del suo libro sia poi così intitolato: tecnologia, innovazione e crescita. Se ne consiglia la lettura.

Ma come ben si comprende è un cambiamento che attiene alla concezione del ruolo della macchina statale che postula ben altri modelli Istituzionali destinati ad aprire fronti di battaglie politiche che appaiono, alla sola idea, improponibili.

Il tema rientra nello scenario culturale che si legge nel testo di Daren Acemoglou e James A. Robinsonperché le nazioni falliscono”, tomo di ben 452 pagine in cui si sostiene che le innovazioni strutturali sono all’origine di potenza, prosperità e povertà delle nazioni e fanno la differenza tra le Nazioni.

 

Sono a fondamento delle iniziative sui cambiamenti istituzionali, tanto necessari ma altrettanto contestati nel caso Italia soprattutto da chi dice che di  quelle riforme il popolo non sente il bisogno, che stanno facendo perdere solo tempo e pace sociale mentre occorrerebbe pensare ad altro, a cose più terra terra: lavoro, occupazione etc etc. Che pure non vengono trascurate. Forse non è superfluo anche dire che il popolo ne ignora gli effetti, e che i politici ben si guardano dallo svenarsi perché più impegnati sul risultato elettorale immediato e non sulla stabilità che è un valore di lungo periodo.

Naturalmente non si può essere d’accordo con queste opinioni alimentate anche da una parte minoritaria della sinistra dem, nel paese, oltre che dai partiti di opposizione. Per questi se ne può comprende la posizione ostativa.

Talvolta, come succede da noi, è proprio l’assetto istituzionale a fare da freno alle innovazioni secondarie, ma non di secondo livello , dei processi , delle procedure e delle applicazioni legislative.

L’esempio dell’Italia calza a pennello per le tematiche trattate, giacchè proprio le autonomie e le autarchie delle Regioni e dei Comuni (che si vogliono in parte modificare melius ridimensionare con la modifica del Senato ed altro) sono e sono stati il freno più evidente alla diffusione di una infrastruttura di sistema nell’It o nella gestione dei data base e dei softwares per la pubblica amministrazione.

Abbiamo sin qui realizzato un paese di arlecchinate informatiche per sistemare le quali e ricondurre tutto ad armonia occorreranno sforzi immani che poco c’entrano con i sistemi e che invece attengono alla impenetrabilità delle mura tecnologiche erette per le gestione del particulare.  E tutto questo è avvenuto in un paese nel quale le autarchie hanno prodotto altri guasti ben noti: nella Sanità e nella politica, territori sotto controllo. Figuriamoci cosa è successo nell’It nella quale il Governo Centrale non ha mai avuto un potere reale al punto che tutte le norme del CAD ( Codice della amministrazione digitale ) sono norme imperfette cioè senza sanzioni; affidano ai comportamenti virtuosi delle amministrazioni periferiche ( Regioni, Province (ex) e Comuni ) la attuazione delle direttive.Il che è quanto dire.

 

 

Federico d’aniello

Ex ceo dei sistemi informativi del Banco di Napoli

 

http://www.agid.gov.it/

[1]

[2] Il fondamento del nuovo assunto entrò nella cultura dei manager con i tre libri sotto richiamati ( ricevuti naturalmentein dono da studiare e conservare  tra quelli basilari perché fondamentali nella professione del bancario che innova):  Information system management in practice 1990 , di Barbara Mc Nurlin e Ralfh H.SpragueJr;  The Business Value of Computers An Executives Guide 1990, Paul A. Strassmann e Technology in Banking  Creating Value and Destroyng Profits 1989  di Thomaa Steiner e Diogo B Texeira  ( tutti di case editrici americane ).Costituivano all’epoca il cavallo di battaglia della scienza americana dell’innovazione anche a supporto delle teorizzazioni di Drucker , teologo della scienza organizzativa.

 

[3]Titolare dell’area amministrazione della Filiale di Napoli , filiale con un numero enorme di addetti di circa 1400 unità ( anni 85/88), CEO nei sistemi informativi( 88/94) con 600n addetti, nell’Organizzazione ( 96/2001) Capo della Funzione Organizzazione della banca  per le filiali e la direzione generale

[4] Una testimonianza ed una lezione alla università di Pavia per la cattedra di Diritto Pubblico del prof Cordini sul tema benchmarking tra e-gov e l’e-banking, di cui si conserva il testo, ha consentito di raccontare i motivi del successo del sistema bancario in generale nel particolare settore della innovazione nel confronto con la lentezza e la vischiosità della macchina pubblica

[5] [5] Di essi si dispone di una ricca documentazione che di tanto si rilegge per valutare cosa è stato trasferito nella fase del passaggio al San Paolo

[6]Opera di efficientamento, snellimento, razionalizzazione: metodologia applicata dalla grandi aziende internazionali che nasce alla Toyota e che è ora impiegata in tutto il mondo anche nelle nostre medie aziende del Nord Est.

[7] I cui testi possono essere consultati e scaricati sul sito dell’Agid e che sono stati riscritti da ultimo per tenere conto di tutte le recenti aperture previste dai finanziamenti europei 2014/2020 e dalla legge di stabilità per l’anno 2016

[8] Alcuni dati , ma solo alcuni: Oltre 10 milioni di depositi telematici, con una media di 800.000 al mese, destinati ad aumentare con l’introduzione a giugno 2015 della possibilità di deposito telematico degli atti introduttivi del giudizio; 36 milioni di comunicazioni consegnate via PEC, circa 1,2 milioni al mese, con un risparmio stimato di circa 124 milioni di euro; quasi 6 milioni di accessi al giorno alla consultazione dei registri e dei fascicoli; oltre 20 milioni di documenti informatici archiviati e gestiti dai sistemi civili; garanzia di accesso per 1 milione di utenti fra magistrati, avvocati e consulenti del Tribunale iscritti nei pubblici elenchi, oltre a tutti i cittadini potenzialmente interessati da un procedimento giudiziario civile.

 

Mezzogiorno e linea politica

Scritto nel mese di ottobre del 2015, in occasione delle chiacchiere e del dibattito sulla volontà reale del Pd di voler dedicare al sud un impegno quanto meno possibile in relazione a tutti i vincoli di bilancio ed al supporto della politica, non osteggiata dalle forze nordiste. Pubblicato in un primo momento sul Blog era stato eliminato perché apparso ridondante rispetto alla quantità di note pubblicate sul tema sulla stampa quotidiana ed in rete.

Alla luce del nuovo pezzo di Viesti apparso sul Mattino se ne ripresenta il testo giacchè centrato  sulla leva della reindustrializzazione, unica sulla quale si può coltivare una rinascita del territorio cui andrebbero anche restituite le aziende finite male con la scomparsa del Banco di Napoli. Di esse si dice nel testo

 

http://profgviesti.it/wp-content/uploads/2013/04/20160121ilva.pdf

 

 

Mezzogiorno e linea politica

 

Il problema del Mezzogiorno è molto complesso ed articolato. Non è vano ricordare che alla criticità attuali hanno concorso fattori endogeni ed esogeni dell’intero territorio, locali ma anche nazionali e, nel tempo, cause di origine antica ed anche recente.

Riprendo una di queste legata alle vicende bancarie del periodo dal 90 in avanti.

Chi scrive è stato dirigente del Banco di Napoli e di quella storia, nel momento in cui si consumò la fase stragista, è stato testimone attento, consapevole e documentato.

Di strage si trattò, giacché fu tutto il sistema bancario e finanziario meridionale a soccombere. [1]

Una strage di tante banche che sino a quel momento avevano operato, forse anche male, ma certamente sotto la vigilanza della Banca d’Italia che, probabilmente, si accorgeva delle tante criticità, senza, però, assumere tempestivamente provvedimenti predittivi , intervenendo di volta per volta con soluzioni rituali nella speranza che il sistema economico dopo il disastro politico della tangentopoli del 1992 potesse riprendersi e con esso anche quella parte del sistema finanziario caratterizzato da criticità antiche.

 

Tra l’altro quelle carenze erano state oggetto di analisi approfondite con particolare riguardo per il credito in testi di studiosi pubblicati persino sul sito della Banca di Vigilanza; riguardavano le ragioni per le quali il credito appariva rischioso in conseguenza delle opacità del sistema economico del sud sfavorito da pesanti da fattori di diseconomia oltre che dalla presenza della criminalità economica che ne inquinava il contesto.

 

Il risanamento peraltro non avvenne né potè accadere per la tensione dei mercati finanziari e dei cambi che divenuta più acuta  nella fase di avvicinamento all’Europa ed alla moneta unica e dopo il rischio del default scongiurato con l’assunzione di provvedimenti di politica monetaria; provvedimenti unici per il nostro paese che aveva conosciuto fasi di economia drogata nel precedente decennio alimentata prevalentemente dalla gestione del tasso di cambio.

 

Di tanto in tanto quelle scelte di politica economica avevano contribuito temporaneamente a risollevare l’economia con il contributo delle esportazioni favorite dall’indebolimento della lira e dal rafforzamento delle altre monete; giammai però i governi, troppo sensibili alle politiche del welfare, si erano preoccupati di incidere sugli assetti strutturali del paese rimasti deboli e mai fatti oggetto di interventi seri sia in chiave istituzionale che di assetto organizzativo della società. .

 

Il Partito comunista, in quel periodo unica forza di opposizione ancora vitale, appena salvatosi dal disastro di tangentopoli, ed alcuni dei suoi più autorevoli rappresentanti presi nella morsa del conflitto destra/sinistra DC/PC e PSI, non osarono frapporre alcuna resistenza di fronte al disegno che riguardò in particolare il Banco di Napoli che ne determinò   la scomparsa “meridionalista”. DC e PSI erano stati smantellati dalle inchieste ed avevano ceduto le armi ad altre forze incombenti.

 

Anche per questi eventi della storia recente il Mezzogiorno può e deve spendere verso l’ intera società crediti mai soddisfatti, giacchè come ha scritto Gianfranco Viesti, nel suo libro “mezzogiorno e tradimento; il Nord ed il sud e la politica che non c’è”, questa parte del paese non solo è stata dimenticata ma con i  sacrifici impostigli ha contribuito ad arricchire l’altra, cedendole risorse e tutti i suoi centri decisionali in ogni settore che conta: finanza, credito, politica, imprese, giornali etc etc.

 

Il Banco di Napoli, oggi, benché sembri vivo con il suo marchio ed il suo peso , prima all’interno del  San Paolo e poi nel gruppo Intesa, con la sua rete territoriale e con la sua capillare presenza serve più  a drenare risorse finanziarie dal Sud alle economie più solide del Nord che non ad esprimere una politica del credito effettiva ed adeguata, guidata da una strategia, quella che per dirla con i profeti della scienza bancaria del tempo, i Filosto, i D’angelo, Mazzantini, si esprime proprio con la presenza di un sistema bancario efficace posto a capo di tutto il  resto del sistema di imprese nel mercato servito.

 

Il Banco di Napoli di oggi, ma ciò vale anche per le altre banche del sud passate di mano, manca dell’anima che fu propria dei banchieri che delle loro terre conoscevano ogni anfratto e che sapevano sussidiare il pur sempre debole sistema delle imprese anche nelle più avverse situazioni congiunturali.  

 

Quei banchieri ne accettavano il rischio ma riuscivano a dare sostegno anche nelle fasi buie.

Da quella data, 1996, segnata poi dalla presenza di una politica a fasi alterne, condivisa tra anni di destra e di sinistra, di fatto non c’è stata più attenzione per il Sud e non c’è più stato un disegno strategico forte. Vari tentativi di chiaro intento politico, miranti strumentalmente alla sola cattura del consenso, hanno miseramente fallito.  Il sud in altri termini non ha più le sue vecchie banche.

 

La pubblicistica al riguardo è copiosa ed è suffragata dalla rassegna annuale della Svimez che da sempre declina i dati della disattenzione complessiva con una quantità di numeri in serie storica che fa la tac ad ogni momento sociale ed economico a conferma del declino graduale.

 

Un progetto di recupero non può fondarsi solo su apporti economici e finanziari; va costruito su una condivisione generale fatta anche di solidarietà politica che deve esprimersi avendo al centro dell’attenzione tutti i focal point che caratterizzano questo territorio: criminalità, strutture organizzative, infrastrutture, università, moralità della politica, classe politica etc etc.

 

E’ emerso recentemente che taluni mali sono condivisi; per anni, però, hanno riguardato prevalentemente il Sud incidendo in profondità sui suoi assetti socio economici, d’impresa e sui suoi assetti sociali.

 

Gli ingredienti del paniere sono tanti; toccano l’insufficienza e l’inadeguatezza di una vision sull’insieme, di una cultura della ricostruzione morale, politica, organizzativa.

L’humus necessario per intervenire può appartenere solo alla politica generale con la P maiuscola che deve mettere, in maniera forte ed anche emotiva, la spinta per ridare al Sud ed al suo problema il valore necessario per trainare le economie dei territori e quello dell’intero paese. Non sono sufficienti gli empiti localistici delle singole regioni autonomamente considerate.

 

Le ragioni del Mezzogiorno sono state, nei venti anni e passa, percepite come una esigenza nazionale di serie B (cioè di secondo grado) nel contesto delle problematiche complessive ed internazionali.

Il professore Viesti a pagina 9 del testo citato scrive: “risolvere i problemi del mezzogiorno e risolvere i problemi dell’Italia richiede la stessa strategia. Ma di questo ormai pochi ne sono convinti”.

 

E’ sembrato ora, dopo la pubblicazione dei dati della Svimez del 2015 tra l’altro noti da sempre, che questo governo, quello attuale a guida renziana, anche sulla base degli impegni assunti e delle dichiarazioni espresse in una sessione di segreteria nazionale ne abbia preso contezza e che si appresti ad avviare con impegno e determinazione ciò che occorre per questa parte del Paese che ha tanti deficit , molti soprattutto di natura infrastrutturale.

Se ne è avuta idea con la pubblicazione del Master Plan che costituisce, al di là del pur sottili critiche di economisti adusi a spaccare il capello, un impegno morale ed una sorta di promessa vincolante per gli anni futuri circa la destinazione delle risorse dei fondi UE, sempre oggetto di contesa tra Nord e Sud, che richiedono anche la destinazione vincolata dei fondi del bilancio statale a titolo di cofinanziamento.

 

Per capire quanto questo confronto sia ancora attuale basta andare alle dichiarazioni recenti della Lega, da sempre ostile al SUD  “ladrone”: “le tasse del Nord al Nord e quelle del Sud al Sud”, come dire che questa categoria di italiani dimentica proprio i sacrifici fatti sopportare, e non da ora, al Sud per arricchire il Nord.

 

Nell’agenda dei pentastellati il tema è poi assente perché i programmi non aspirano alla realizzazione di uno sforzo politico costruito su una strategia economica complessiva con una vista di insieme sui tanti versanti della politica.

 

Quindi per aiutare il Sud  non si è sufficiente invocare solo risorse economiche e finanziarie.

 

Non si tratta di spingere, come detto innanzi, solo con la leva della finanza e delle risorse Ue ma occorre costruire un progetto globale che pur contando sulla valenza di  tante iniziative di successo, che ci sono, sia capace, di far fare al Sud un salto epocale non solo con la messa in cantiere di una massa critica di progetti infrastrutturali necessari e non rinviabili, ma soprattutto con la ricostruzione di un “sistema territoriale” portatore di valori generatori di emozioni e di slancio ricostruttivo.

 

Il Sud ha perso quasi tutte le grandi aziende, ha i Comuni più disastrati d’Italia ( Potenza, Taranto, Napoli etc  etc ), i progetti industriali più complessi (vedi ILVA), ha  Regioni dove sembra che tutto sia in perenne involuzione, ( non c’è pace in nessuna di queste Puglia, Campania, Calabria, Sicilia ) ha conflitti istituzionali permanenti  figli del sentimento di avversione al centralismo (  vedi Bagnoli, trivelle, ambiente ), ha i redditi pro capite più  bassi, insomma ha micce accese che vanno spente con una continuità di azione che una  flebile azione politica non può più né contenere nè più permettersi.

 

Non bastano iniziative pur apprezzabili ma isolate che non proseguono se non si avverte la sensazione della volontà e della presenza della politica che del Sud deve farsi carico; venti e più anni di latitanza non possono essere recuperati in poco tempo.

 

La gente comune del Sud avverte un profondo disagio; osserva che il Pil non si raddrizza solo con il turismo ( che non c’è)  e l’agricoltura ( che ha valori modesti ) o solo con i beni culturali da ricostruire , leve pur importanti, ma fattori  che, messi tutt’insieme, non fanno fare il salto sul quale tanta disoccupazione, anche giovanile, conta.

Basta leggere i dati delle pubblicazioni sulle economie regionali per rendersi conto delle le criticità e capire il basso potenziale per la crescita che derivano dai settori tradizionali su cui una parte della politica locale vorrebbe costruire il rilancio; si trascura e si mette in secondo piano l’idea di strategia industriale leva essenziale per la rinascita e la ripresa.

Gli economisti, anche quelli del Sud, fatta eccezione per alcuni della Università di Bari che si spendono spesso con interventi mirati ad educare, farebbero bene di tanto in tanto a rassegnare il contributo dei settori che esprimono il vero valore aggiunto alla produzione ed al Pil , a spiegarlo agli italiani ed ai sudisti e che vagheggiano una società orientata solo alla industria delle vacanze, del sole ed alle risorse della agricoltura, importanti ma non bastevoli per un rilancio del territorio.

 

Si può ben vivere di aria fresca, pulita di sole e mare ma non basta.

 

L’utopia della decrescita felice non porta pane e companatico ma solo speranze illusorie.

 

Occorre perciò provare a rigenerare un vero sistema di imprese, un tessuto industriale e produzioni spendibili e soprattutto puntare a vivificare e rilanciare tutte quelle aziende che costituivano punti di forza dell’immediato passato , su cui occorre lavorare per rigenerare capacità competitiva in settori ad alto valore aggiunto per il Sud costituenti aree primarie di mercato.

 

Occorre ricreare contesti di manifatture che possono, attraverso l’integrazione con le vie d’acqua dei porti, generare quella ricchezza primaria sulla quale, grazie a Dio, il paese conta perché da essa ritrae le risorse che costituiscono la vera materia prima ed il valore aggiunto che è il fondamento della economia e degli scambi.

 

E questa insufficienza ed inadeguatezza di sistema si legge purtroppo anche attraverso il doloroso confronto dei Pil del sud con quello di altre aree del nostro paese e dei redditi medi procapite di livello quasi da terzo mondo.

Tutto ciò induce a ricordare ciò che conseguì alla sola storia del Banco di Napoli  di cui si hanno i  dati sottomano : circa 35 mila furono le aziende assistite dal Banco di Napoli che, con un colpo di spugna, nel 1996 furono cancellate con il passaggio nella società di gestione degli attivi (SGA) affidata ai Nordisti ( si perché venne costituita a trazione Nordista in ogni senso ). Altrettanto nel numero furono quelle delle altre banche che seguirono la stessa sorte.

La Sga, Società Gestione degli attivi, la seconda dopo la storia del Banco Ambrisiano, ha bene espletato  la mission di recupero dei  crediti incagliati e anomali sino a chiudere la sua attività qualche anno fa con la generazione di risultati eccellenti che  hanno segnato anche la sua ricollocazione sul mercato come azienda ausiliaria del credito.

Ma quella azienda non ha avuto, però, del pari anche la mission di assistenza nella fase critica tipica della banca che riesce anche a generare legami ed interrelazioni tra settori in fase di congiuntura negativa con settori in fase dinamica ed a mediare gli effetti virtuosi di possibili combinazioni che non sono mai a somma zero.

Ha fatto del recupero il solo obiettivo; lo ha svolto bene in chiave cautelare e giuridica ed ha di massimizzato i rientri.

Ma ha segnato di fatto la cancellazione di un sistema di imprese che costituivano il tessuto delle piccole e medie imprese che si alimentavano del credito del sistema del Banco di Napoli sino a quel momento attivo e delle note agevolazioni della Casmez e delle leggi speciali ad essa successive.

Va anche ricordato, in questa sede, per completare il dato storico, che la politica Nordista e Leghista non solo chiuse i rubinetti alle operazioni che stavano per perfezionarsi, decretando la fine della leva finanziaria di sostegno agevolato, ma ebbe a depennare anche i 75 mila miliardi di lire di contributi previsti dalla leggi speciali ancora da spendere, già appostati bilancio, recisi dall’avvento a cultura nordista intervenuta dopo la stagione dei processi del 92  per punire il sud reo di sprechi e di tante altre supposte nefandezze.

Quei contributi attesi, mai più dati, segarono le gambe alle aziende ed al Banco ed a tutta la occupazione fatta di almeno 200 mila addetti.

 

Su tanto vale la pena, ora che il tema del Mezzogiorno è divenuto di maggiore attualità,  di recuperare la memoria e il filo della storia perché altro è lamentarsi altro è parlare con i dati ed altro è necessario ricordare alla politica giacchè le risorse aggiuntive che andavano orientate al Sud, tra cui quella del 45% della spesa in conto capitale che i Governi di centro sinistra e di centro destra si erano dati come obiettivo, non sono mai state finalizzate secondo i termini degli impegni assunti ma con un delta negativo di almeno il 20%.

 

Forse è anche da queste premesse e da questi crediti “morali “ che  occorre ripartire per ricordare a tutti che il risultato di oggi è la conseguenza di un ventennio e passa di disattenzione. Su di essa il libro di Viesti, che si segnala alla lettura per un necessario approfondimento , si è dettagliatamente speso.

 

La ristrutturazione del sistema bancario meridionale del 1996 in avanti è stata una vicenda unica; non ha mai toccato altre aree della nostra Italia che alla distanza hanno pure messo in bella mostra criticità delle loro banche alle quali, però, si è rimediato con soluzioni che non hanno avuto come conseguenza la distruzione di una parte del ceto imprenditoriale e la perdita dei centri decisionali di autonomia finanziaria.

 

Gaetano Salvemini ebbe ad indicare la questione meridionale come tema determinante per l’Italia anche a cagione del fatto, come egli ricorda , che “ mentre in Europa tutto è mutato , nell’Italia Meridionale le cose son rimaste sempre allo stesso punto; e attraverso a mille tempeste la classe feudale è riuscita a tenersi a galla”. Egli si riferiva naturalmente alla classe dirigente del sud

Non è un caso che recenti ricerche e studi abbiano messo in luce come i due elementi, classe dirigente, sistema bancario, in uno con una criminalità diffusa, continuino a gettare ombre e non aiutino a recuperare soprattutto in economia il tempo perduto.

E per queste ragioni solo una politica con la P maiuscola, oltre al puntuale rispetto delle tappe del Masterplan, che va assunto come dichiarazione di intenti e la prospettazione di obiettivi dell’attuale forza di maggioranza, può dare l’aiuto giusto.

Ma non sembra, purtroppo, che l’abbiano ben capito i tanti capipopolo che tutti i giorni sui media prendono le distanze dal tema più generale per inseguire l’orticello del ruolo che si sono dati, dimentichi che ad una posizione di battaglia politica individuale non corrisponde il bene del territorio nel suo insieme neppure dinanzi a questioni che, pur condivisibili sul piano dei principi, non fanno altro che scavare fratture che non aiutano. Dimostrano essi nei fatti di non aver appreso nulla dalle lezioni del passato.

 

 

Federico d’aniello

Inviata da Windows Mail

 

 [1] Dibattito parlamentare al Senato “D’altro canto, la crisi del Banco di Napoli si inserisce nella piú vasta situazione di difficoltà e di dissesto dell’intero sistema creditizio meridionale, a cominciare dal Banco di Sicilia per finire alla Fime leasing ed all’Isveimer, passando per Cassa di risparmio di Calabria, Caripuglia e Cassa di risparmio Vittorio Emanuele. É, come noto, quasi tutto il mondo del credito del Sud che sta boccheggiando, che sta affondando.”

La corruzione male antico.

(Scritto in occasione del Convegno alla Chiesa del Gesu del Gruppo legalità, convegno al quale intervennero Cantone, Marrelli, De Maio ed altri Napoli il 25 giugno 2014,  ma non pubblicato.Un pezzo giornalistico venne invece pubblicato sul Denaro e appostato sul sito Rotary Napoli Castel dell’Ovo)

Qualche digressione sul tema della Corruzione

Se si fa una ricerca su Google con le parole “convegni sulla corruzione” si ottengono 1.790.000 risposte. Negli ultimi due anni si è generato nella società civile di fatto un circuito “parolaio” estremamente pericoloso. Tutti hanno imbracciatto il vessillo della anticorruzione e dell’anticorruttela.

 

Parlarne a tutto tondo sembra poter evocare l’assunzione dell’antidoto per combatterla “a parole” meno che nei fatti nei sistemi ove è più presente da sempre, sistemi che postulano un modello di società alternativa rispetto a quella tratteggiata nei libri che la pubblicistica ogni giorno mette negli scaffali delle società editrici.

L’elenco è interminabile.

Il fenomeno degenerativo della nostra società è, come è noto, quasi sempre attribuito alla pubblica amministrazione e per essa più specificamente alla materia dei lavori pubblici, resi difficili e complessi da norme che sembrano fatte apposta per rallentare lo svolgimento dei programmi e creare le condizioni per spingere a lubrificare il sistema. Ma non lo esaurisce.

Un esempio di un caso concreto caduto di recente sotto gli occhi ha aperto in chi scrive la mente suscitando una riflessione immediata.

Un bando pubblico per una attività di sviluppo di sistemi IT di una Regione (la nostra, tanto per non dire di altre), per un importo di circa 1000000 €, è stato articolato su un capitolato di 556 pagine.

C’è da presumere che la sola lettura e comprensione del documento avrà impegnato risorse rilevanti per la definizione del progetto da presentare per la aggiudicazione della gara, ancor prima della realizzazione dell’opera. Una volta aggiudicata la gara ad ogni stato di avanzamento non potranno non insorgere complessità non rinvenute nella documentazione di supporto. Quindi occorrerà individuare le strade per aggirare un ostacolo che è in re ipsa e che non è detto debba avvenire solo con il ricorso alle modalità della “pecunia olet” .

 

Talvolta le facilitazioni si articolano anche attraverso modalità che hanno per oggetto scambio di favori impalpabili che la legge, anche quella recente, tende ad inquadrare al meglio senza peraltro riuscirci, pur nella ricerca concreta degli elementi del quadro corruttivo che talvolta può essere anche solo un banale accordo amicale progenitore di altre promesse.

 

Anche questa è corruzione, più sottile, più subdola ma è anch’essa corruzione anticipatrice di ben più strutturati modelli quando se ne ravvisassero in futuro le esigenze.

 

La corruzione, poi , non è estranea anche al sistema delle relazioni tra privati, al mondo delle professioni e soprattutto delle aziende non pubbliche; è parte integrante del sistema di vita quando esso non si fonda su regole morali ed una concezione etica del ruolo, concezione che vanamente viene tradotta nei codici deontologici, largamente usati ed abusati che costituiscono quasi sempre solo materia di studio e non patrimonio sostanziale del modello professionale o del modo di agire delle aziende.

 

Nel contesto privato le articolazione del modello corruttivo avvengono con modalità proprie; hanno impatti meno devastanti degli effetti che si colgono nel settore pubblico ove le ricadute sono esiziali per i costi della macchina operativa oltre che per la inadeguatezza dei servizi e la lunghezza dei tempi dei lavori che durano un’eternità.

 

Che sia un fenomeno più ricorrente nel settore pubblico è un dato certo per la materia che ivi si tratta: raggiungere il “bene pubblico” con soldi pubblici di “Pantalone”, cioè della collettività spremuta per creare ricchezze effimere ed immeritate. Nel privato è più difficile da misurare ed anche da perseguire, lede in via immediata il patrimonio privato a lungo andare lede il patrimonio generale dei costumi e delle regole.

 

Ma ritorniamo alla occasione della nota suggerita dalla lettura della risposta dell’indagine su Google: 1790.000 voci.

 

A parlare di corruzione sono ormai in tanti accorsi, in verità, da ogni dove: Istituzioni, enti, associazioni, centri culturali, ordini professionali, università, privati cittadini che si ergono a difesa della legalità, politici nuovi appena arrivati, che si fanno difensori strenui del rigore e delle regole.

 

In verità c’è anche chi ne fa una sorta di genomica dotazione esclusiva: ed è il caso di taluni giornali, di trasmissioni televisive che l’assumono come verbo, di organizzazioni politiche invase dallo spirito del giustizialismo ad ogni costo.

 

Per indignazione o per moda, per acquisire conoscenze più puntuali o per stimolare le soluzioni politiche, naturalmente, i convegni sull’etica “bene comune” e sulla corruzione non si contano. Vi partecipano tutti ed anche tanti addetti ai lavori.

 

Il tema sembra aver acceso l’ardore sacro dell’onestà sino ad oggi non percepito; un segno potrebbe essere anche l’orientamento di voto degli italiani sulla cui generale natura è anche lecito dubitare, perché nella ricerca di una soluzione al problema, si dà per scontato che non si debbano toccare le posizioni individuali considerate per definizione indenni e mai attaccate dal morbo deviante che corruzione e corruttela ingenerano. Cioè riguarda sempre gli altri e mai noi stessi. Una sorta di nimby: not in my back yardin. Versione del motto nostrano: chi è senza peccato scagli la prima pietra.

 

In definitiva parlarne non costa nulla, fa fare un bella figura, impressiona, e nello stesso tempo dimostra a quelli che ascoltano di essere dalla parte dei giusti, di avere la consapevolezza del tema; cosi si prospetta negli altri anche l’idea del timore che insorge del fatto che inseguire certe strade non porta sempre bene.

 

Purtroppo è normale e frequente che sia tra chi parla ma ancor più tra chi ascolta che si registri la presenza di chi alimenta anche con modalità nascoste comportamenti di corruttela che non necessariamente devono identificarsi con il passaggio di bustarelle e di beni concreti, e che invece si materializzano con lo scambio di favori non consentiti, eticamente e moralmente riprovevoli.

 

E’ sconvolgente la lettura del nuovo libro edito da Bompiani, Numero Zero di Eco, atto di accusa impietoso su alcuni modi di fare giornalismo anch’essi portatori di corruzione e corruttela. I peggiori per l’effetto mediatico che da essi si genera immediatamente e che interessa platee enormi di persone.

 

Il messaggio va egualmente applicato a non poche trasmissioni televisive ove imperversano i soliti noti che non avrebbero diritto di parlare e di stare dalla parte dell’onestà per le pratiche che a loro vengono riferite ed addebitate.

 

In questo caso si dovrebbe dire anche che corrotti sono anche coloro che sfruttano a fini di audience popolare persone che Dante Alighieri avrebbe messo nei gironi danteschi più profondi dell’inferno.

 

Gli esempi potrebbero continuare all’infinito, visto che in ogni caso la percezione che si ha dell’Italia nel famoso indice della corruption testimonia il grado di percezione che si ha all’estero del bel paese, indice che ci penalizza oltremodo nell’economia.

 

Inseguire certe strade non porta mai bene; è cosi, sia per i singoli che per la collettività.

 

Il sistema della corruttela e della corruzione, a ben vedere, e’ molto più complesso del sistema criminale.

 

Quello malavitoso si fonda su una struttura permanente ed una organizzazione con finalità socio economiche destinate alla produzione ricorrente del crimine volto ad alimentare persone ed aziende con il dna dell’illecito che sopravvivono solo grazie ai profitti ingiusti del loro operato.

 

Gli aderenti operano tra di loro alla luce del sole con ruoli e compiti definiti ed obiettivi condivisi i e con l’accettazione di un rischio noto ad ovo.

 

Rischio che nella corruzione si tende a mascherare, giacchè basato su un silenzio prezzolato, su catene di rapporti omertosi i cui equilibri sono sempre sul punto di cedere; sono critici per definizione, per la presenza  nella filiera di parti e soggetti eterogenei, alcuni forti ed altri deboli, quasi sempre colletti bianchi e zone grigie, non protagonisti di vicende di criminalità comune , ma pronte in ogni caso a rompere la catena del silenzio e della omertà al primo dispiacere o torto subito.

 

Riguardando i diversi casi , anche non attuali e degli ultimi anni , si rileva da subito che l’esplosione della notizia e dello scandalo a seguito delle indagini non dipende solo dalla pur brava ed efficace opera dei magistrati che utilizzano tanti strumenti di indagine e tante soluzioni per le inchieste, ma anche dalle iniziative delle cosiddette gole profonde, di quei personaggi che sentendosi, ad un certo punto del percorso, sottopagati per il loro silenzio, e che ritenendo di aver subito torti, dopo aver goduto di un arricchimento temporaneo dettato dalla bramosia di ricchezza e di riconoscimenti sociali effimeri, inciampano. Collaborano, quindi, sapendo di non potersi più sottrarre alla giustizia e dovendo limitare i danni.

 

Ad essi non resta che declinare tutte le informazioni che consentono la ricostruzione della ragnatela corruttiva per contare su una mitigazione di pena, quando non vogliono architettare il ruolo di salvatore della patria per acquisire benemerenze.

 

Si rompe cioè la catena del silenzio e dell’omertà senza esporsi alle dure e diverse sanzioni che invece sono tipiche delle associazioni criminali e che costringono “i collaboratori di giustizia” a una non vita, ad una specie di 41 bis all’esterno, non in carcere ma sotto protezione permanente.

 

E’ cosa ben diversa, è sorte atipica quella che tocca al collaboratore di giustizia dei casi di corruzione. Quali le conseguenze? E’ costretto in parte dei casi a rinunziare ai frutti dell’attività ed a passare il resto della vita nell’ombra o sotto i riflettori della pubblica opinione e, talvolta, nei casi più gravi, in carcere ma solo per qualche tempo.

 

Forse se corrotti e corruttori avessero meglio valutato ex ante i rischi di quella loro scelta insana avrebbero anche assunto decisioni diverse.

 

La corruzione non paga ma costringe a pagare, costringe a vivere una vita morale magra, di tensione, di odio sociale per le conseguenze; abbassa il livello della società civile al rango dei sistemi del terzo mondo.

 

Ciò vale sia per la catena degli amministratori e dirigenti della pubblica amministrazione che per le aziende che inquinano il mercato ed il sistema della concorrenza; entrambi destabilizzano l’economia.

 

Le aziende una volta emerse nella loro immoralità sono costrette, purtroppo, a stalli pericolosi che coinvolgono anche i dipendenti che nessuna colpa hanno ma che finiscono, immeritamente, quasi sempre sul lastrico.

 

Se è giusto che i padroni paghino per i loro errori non lo è però per le maestranze e per le famiglie che da esse dipendono.  Ma allora a chi conviene la corruzione? Lo sentiremo forse nel corso del Convegno alla Chiesa del Gesù dal magistrato Cantone che sul tema si sta spendendo da tempo come civil servant oltre che come operatore di giustizia.

 

 

 

 

 

 

Qualche considerazione sull’oneste vivere.

Nel mese di giugno dello scorso anno ho scritto alcune considerazioni sul tema dell’onestà. Alla luce di eventi recenti che hanno messo al centro dell’agire politico il tema dell’onestà, che sembra stia solo da una parte ed essere appannaggio esclusivo solo di una fetta del paese, mi è sembrato opportuno riproporre il pezzo che affida alla riflessione di chi legge alcune congetture sulle quali sarebbe opportuno tornare più spesso senza gridare al diavolo e fare del bel paese l’area dell’Ue  ove si leggono solo dati e notizie destrutturanti.

 

Nel paese dove è inutile essere onesti: nel pezzo sull’Espresso dell’11 giugno 2015 cosi conclude Saviano.

Egli assume che la politica è incapace di fare pulizia; si arriva alle liste compilate con criteri discutibili. Conclude l’articolo dicendo che Corrado Alvaro ebbe a scrivere che la disperazione più grande che può impadronirsi della società sta nel dubbio che vivere onestamente è inutile.

Per quanto si possa in parte condividere il pessimismo sulla qualità morale media della nostra società, indotta dai tanti esempi ricevuti per il passato, non si può del pari non considerare che negli anni si sono sviluppati una serie di anticorpi alla disonestà che certamente non possono farla considerare uguale a quella precedente Ventennio.

Mi chiedo se non sia anche compito dei giornalisti e degli opinionisti fare delle analisi più puntuali, evitando di cavalcare il tema, ed indicando ai lettori le differenze sostanziali tra il pluralismo democratico di oggi rispetto alla diversa governance culturale di un periodo, retrodatabile sino al 70/75, nel quale l’assenza nella società di strumenti di informazione pervasivi di fatto relegava la conoscenza delle notizie a pochi addetti, quasi sempre di testate giornalistiche manipolatrici della pubblica opinione ; notizie recitate peraltro senza controllo alcuno.

 La televisione come mezzo di diffusione era nella funzione divulgatrice pressochè insufficiente e forse anche imbavagliata; la rete web inesistente, i giornali molto più asserviti e strutturalmente funzionali alla politica o al potere ovunque si annidasse.

Tante notizie di reità e di malaffare rimanevano nell’ombra; passavano sotto silenzio o arrivavano in maniera distorta. E poi non c’era l’uso giornalistico indiscriminato ed illegittimo, di oggi, delle notizie di reato frutto del passaggio del processo da inquisitorio ad accusatorio, passaggio che avrebbe dovuto tutelare il presunto reo e che invece lo ha messo immediatamente alla berlina mediatica con l’impiego distorto delle notizie da intercettazione in prima pagina che però assiemano ed accomunano nelle vicende cittadini che solo a distanza di anni riusciranno ,poi, a dimostrare di essere fuori della mischia.

Si può, pertanto, con sicura convinzione dire che gli onesti sono solo una minoranza nel paese e che tutto nella politica si riduce alla “sola politica del malaffare”?

E che tutta la politica viene portata avanti da persone deviate che, per quanto significative nel numero, non rappresentano giammai tutta la categoria nella quale, invece, operano persone impegnate, serie e determinate a curare il bene collettivo?

Ad avviso di chi scrive è da rifiutare l’assioma della società dei disonesti di Alvaro, come della politica fatta solo da disonesti, non fosse altro per il fatto che la stragrande maggioranza del paese, fatta di cittadini comuni e di politici comuni, può vivere di modesti e umili passi, di contributi incapaci di incidere ed anche incapaci di iniziative portatrici di disvalore.

C’è infatti una maggioranza silenziosa che opera e lavora, distribuita ed articolata cui forse si può e si deve addebitare una sola colpa e responsabilità: quella di essersi messa troppo in disparte, di non partecipare, di delegare tutto ai pochi che la guidano.

Si è finanche assunta gran parte di essa l’ulteriore ruolo dell’astensionismo inquadrabile nella categoria di coloro che non hanno tra le loro priorità il bene della società e dello stato e che si lavano le mani alla “Ponzio Pilato”.

C’era anche prima ma ora è cresciuta.

Pericle nel suo discorso sulla democrazia agli ateniesi (qualche annetto fa, circa 400 A.C.), e ce lo ha ricordato recentemente De Masi nel suo Omnia Mundi , ha detto dei cittadini che si disinteressano della politica che non sono persone pacifiche ma inutili per la società alla quale pure si aggrappano, disinteressandosene.

E’ onesto assentarsi e non sentire il dovere di indicare le proprie idee in politica ma partecipare solo indirettamente a tutte le conseguenze, nel bene e nel male, delle scelte operate dagli altri?

O è solo un modo ignavo per dire io non c’entro, mi tengo lontano, anche se poi le conseguenze delle decisioni altrui, come del voto, ricadono su tutti ed anche su chi si è messo sulla sponda del fiume.

 Si partecipa delle cose buone e per quelle non buone si dice: io non c’entro.

Il non voto non è una scelta della ragione ma di pancia; pesa sulle sorti della società, disorienta tutti e favorisce le formazioni del populismo, del qualunquismo e della rabbia.

Torniamo alla onestà di cui innanzi si è detto.

C’è in questo costante ritornello sull’onestà, anche di tanti politici , giornali , giornalisti e di tanti cittadini “moralisti” la predica dal pulpito ( è difficile vederli attivi nel ruolo di reali moralizzatori che è ben altro ); c’è una riscoperta dell’onestà in politica dimentichi di cosa sono stati e di  cosa hanno fatto ieri , dimentichi di tante incoerenze che sono sotto gli occhi di tutti, talvolta anche quando appare abbiano operato in tutt’altro senso, ( la lista è lunga e ci porterebbe lontano); c’è in questo refrain di  bandiera l’idea che ora essa, l’onestà, stia da una sola parte.

C’è una sorta di narcisismo di opinione che tende a voler far coincidere chi scrive e chi ne parla (ormai ne parlano tanti a sproposito) con i moralizzatori (cioè con coloro che operano per moralizzare) e non con i moralisti; si sentono essi, sol perché ne parlano e ne scrivono i soli protagonisti del bene, moralisti d’occasione “con la parola e le opinioni “.

Alcune categorie, poi, sembrano santuari dell’onestà nata solo oggi pur essendo convissute con la storia degli ultimi vent’anni del nostro paese al cui precipitato hanno concorso tutti, nessuno escluso.

Una mano a questa scorribanda di idee la dà, poi, l’uso della rete per la quale, non a torto, un certo signor ECO tempo fa ebbe a dire ed a scrivere che essa ha dato spazio anche a chi nelle discussioni del bar, solo qualche anno fa, sarebbe stato messo da parte per la sua insulsaggine e superficialità.

Nessuno di quelli che scrivono di queste cose può essere misurato in concreto con cosa fa ed ha fatto e con i risultati della sua esistenza professionale e civile, sul campo ed in politica, può essere valutato per i suoi comportamenti; conta solo per quello che scrive avendone modo ed occasione o pulpito in qualche talk show, espressione quasi tutti di lacrimatoi dove quelli che lacrimano hanno sempre ragione perché gli altri lavorano nella società solo per danneggiarli.

Evviva la democrazia e l’arte dell’apparire.

Chi invece legge, ascolta, si abbevera, attraverso la lettura si purifica alla fonte dell’onestà raccontata pentendosi di non appartenere all’élite dell’ “oneste vivere” che purtroppo è cosa ben diversa da quella raccontata e recitata e che invece si traduce in atti silenziosi di operosità quotidiana improntata alla correttezza del modus vivendi sempre ed in ogni occasione.

Mi pare sia questa una chiave di lettura corretta, “oserei dire più onesta”.

Tutto ciò detto, naturalmente, vale non solo per i cittadini comuni ma anche e soprattutto per la politica, per tutti coloro che la praticano, per tutte le formazioni di destra e di sinistra ed anche per le formazioni populiste e di rabbia; per esse si potrebbe dire anche che per la giovinezza politica, per essere stati sempre ai margini talvolta anche sociali e fuori dal sistema, non hanno vissuto le condizioni e l’humus per diventare politicamente disonesti : non sono stati cioè ancora messi alla prova e non sono per definizione inattaccabili.

Guardare all’anagrafe, alla provenienza sociologica e professionale dei tanti nuovi protagonisti della politica è certamente una apparente garanzia di purezza generazionale, ma non la garanzia che nel tempo le condizioni di contesto la manterranno intatta.

Va infine detto che la disonestà non è solo quella si materializza in comportamenti truffaldini, di rapina delle risorse dello stato e o della a pubblica amministrazione, in comportamenti sleali e oggetto di disvalore giudiziario e penale. Non è qui il caso di elencare i diversi modi di articolazione della disonestà: sarebbe troppo facile una esemplificazione guardando alla nostra società.

Ma c’è poi una disonestà più profonda, pericolosa, perché ideologica che è quella che snatura il mandato politico (dell’ars politica) giacche far politica, come diceva Aristotele nella ponderosa opera dell’etica Nicomachea, significa occuparsi prioritariamente della cosa pubblica nel solo ed esclusivo interesse della collettività tutta, per il bene della gens patria.

Significa avere un disegno politico di cura delle cosa pubblica, del bene pubblico che è di tutti; un disegno praticabile, che non sta solo nella morsa del moralismo ad ogni costo, per ogni situazione, presentando come società migliore solo quella che rende giustizia in nome del giustizialismo, senza indicare poi soluzioni che valgono per tutti e per la società intera.

Ci sono diversi modi di essere onesti e disonesti e ci sono molti modi per essere di aiuto vero per la collettività: uno di questo sta anche nel dire la verità, nel comunicare con onestà, con lo scopo di rendere tutti  più consapevoli e capaci di assumere decisioni; decisioni non giuste in assoluto, perché non esistono decisioni giuste e non lo sarebbero mai per tutti, ma decisioni opportune e funzionali al momento, al contesto economico , politico e sociale del quadro nazionale ed internazionale che è un portato di anni di storia a cui hanno concorso tutti: la politica, i cittadini, la gens, la cultura, le relazioni internazionali, gli eventi della storia , insomma tutto e tutti.

Nessuno può ritirarsi dicendo io non c’ero. Purtroppo ci siamo stati tutti e ciascuno ha dato nel bene e nel male il suo apporto destruens e construens. E lo si dovrebbe misurare solo con i fatti e con i risultati.

 

E’ da qui che occorre ripartire non ingannando il popolo non sempre attrezzato per comprendere tutto, più sensibile alle sollecitazioni che parlano alla pancia; è da qui che occorre responsabilmente iniziare per fare politica seria senza proporre il miraggio di soluzioni miracolistiche ed immediate, e con la lusinga di difese ad oltranza di posizioni del tutto insostenibili.

Lo stato attuale delle cose è il portato di anni di inazioni e di cattive azioni in politica e nella società che ha smarrito valori e la bussola.

Quindi, per riprender lo spunto offerto dal giornale, scritto in un momento in cui si discuteva delle liste e dei politici incriminati,  si deve sostenere, contraddicendo ALVARO, che vivere “oneste” non è solo un dovere, non è solo un imperativo morale , è la condizione minima con la quale occorre incidere anche là dove quegli stessi principi di onestà non sono pane quotidiano, ricorrendo però molto meno alle parole e sostenendo con azioni concrete la società nelle difficoltà, soprattutto quando occorre, evitando esacerbazioni e indicando passi morali che non sono quelli dell’invito all’astensionismo ed altri di cui si è scritto e dibattuto recentemente nello stesso periodo.

 Sarebbe questo un vero segnale di solidarietà nazionale non indebolito peraltro dalla difesa tout court, e ad ogni costo, dello stato individuale che si porta ed a cui si appartiene che tende a mettere al centro solo le proprie opinioni escludendo la società intera molto più complessa ed articolata.

 

L’Università on line :una occasione da non perdere

Traduzione di un articolo apparso su una rivista della Società di Consulenza strategica BOSTON CONSULTING GROUP .

“Il numero relativamente piccolo di persone che, In un passato non troppo lontano, ha preso lezioni on-line negli Stati Uniti ha visto una crescita all’alternativa dei corsi tradizionali tenuti in classe . Gli adulti in carriera e i giovani hanno approfittato delle lezioni on-line gradite a causa della convenienza concessa loro di imparare sempre e ovunque. Nella mente di molte persone i corsi di laurea online sono stati quasi sempre associati a scopi lucrativi delle associazioni, delle istituzioni, anche se sono state molte le istituzioni non profit che hanno proposto corsi individuali on-line.
Oggi, quello che una volta era considerato un mezzo educativo di nicchia è diventato parte del mainstream.

Ad esempio, il 60 per cento di istituti secondari propongono offerte di corsi online. E la percentuale di studenti di istruzione superiore attualmente iscritti ha almeno un corso on-line ed è ad un massimo storico del 34 per cento, ovvero rappresentano circa 7 milioni di studenti-con iscrizione online con una crescita  di almeno cinque volte di più rispetto al numero alle iscrizione totale. Più di 3 milioni di studenti, il 15 per cento di tutti gli studenti dell’istruzione superiore, stanno attualmente imparando, principalmente attraverso corsi on-line, come studiare in un programma che è per lo meno per l’80 % in linea.

Tale cifra era del 6% per cento un decennio fa.

La formazione on-line è associata ad una vasta gamma di istituzioni educative, tra cui si registrano alcune delle più prestigiose università senza scopo di lucro del paese. Ciò che aveva generato un’opportunità basata su un trade-off qualità /convenienza si è modificato in una percezione del livello di qualità costruito sulla reputazione e su una modalità di insegnamento che richiede meno compromessi.

Un sondaggio BCG su oltre 2.500 studenti e 675 genitori e con-aziende americane ha confermato queste tendenze che si arricchiscono di nuove opportunità per esempio con l’esperienza degli studenti in corsi blended (che combinano on-line e l’istruzione in-class). In linea con le stime di cui sopra, i risultati del BCG US Education Sentiment Survey indicano che la percentuale di studenti attualmente con un corso online si attesta al 30 per cento degli studenti post-secondaria.

Si stima inoltre dal sondaggio che il 16 per cento degli studenti post-secondaria sta attualmente imparando principalmente attraverso corsi on-line. Inoltre, la ricerca di BCG ha identificato gli atteggiamenti universali sulla formazione on-line tra gli studenti e genitori.

La indagine ha mostrato che gli studenti in tutti i dati demografici e posizioni sociali vogliono combinare  gli online con corsi in aula tradizionali, per creare un’esperienza di apprendimento che coniuga le impostazioni virtuali e tradizionali. In realtà, la nostra indagine indica che più del 25 per cento degli studenti è attualmente in corso almeno un corso blended.

E’ anche emerso che gli studenti desiderano un maggiore livello di interattività .

Le istituzioni che non riescono a prepararsi a questi cambiamenti e rispondere alla drammatica maggiore concorrenza tra offerte online rischiano di perdere la quote di pertinenza e la quota di mercato globale. Quelle che si adattano scopriranno enormi opportunità non sfruttate per la crescita, nuove piattaforme per l’innovazione ed il potenziale modo di trasformare le inclinazioni con cui le future generazioni di studenti impareranno.”

IL  CASO ITALIA

Siamo il paese con il più basso indice di e-learning, con il più basso indice di studi che si perfezionano on line.In compenso siamo il paese con il più elevato indice di costo amministrativo e di gestione in tutti gli ordini di scuola.E non è un caso il dato rappresentato dal fatto che solo il 40% dei giovani tra i 25 ed i 40 anni ha un titolo di studio di cultura terziario, mentre solo il 15% tra i 55 e 64 anni ne dispone.La percentuale aumenta di 10 punti nella generazione degli anziani.Dopo il Brasile siamo il paese con la percentuale più bassa di laureati.

Analisi

In Italia gli studenti iscritto ai corsi delle Università Telematiche on line sono appena 46 mila circa. Le Università tradizionali appaiono restie ad aprirsi del tutto e non riescono a cogliere le opportunità che si presentano con l’impiego delle tecnologie che nei paesi avanzati e nei paesi Europei lungimiranti si stanno offrendo ai giovani.

Università Telematica Guglielmo Marconi                                                                                         9455          4.868                       14.323

Università telematica Unitelma Sapienza di Roma                                                                            873             772                          1.645

Università Telematica Internazionale Uninettuno di Roma                                                         5939          3351                          8.710

Università Telematica Niccolò Cusano di Roma                                                                               7240          4550                        11.790

Università Telematica San Raffaele di Roma già UNITEL                                                             609             359                             968

Università Telematica “E-Campus di Novedrate (Co)                                                                     6683         3572                         10205

 

In un fondo della settimana scorsa su un importante settimanale in merito alla riforma della Scuola in generale si osservava, e ciò vale per ogni ordine di scuola ed anche per le Università , che quel che conta nel processo di formazione non sono i contenuti, che possono essere visti in funzione degli obiettivi e delle finalità professionali a tendere, quindi non il cosa , ma il come.

Forse anche le Università devono fare una profonda riflessione e rendere sempre meno cartacea, libresca e frontale, la modalità di insegnamento e sempre meno statiche le lezioni.

Ne trarranno vantaggio tutti e soprattutto gli iscritti che sono circa 1700000 costretti in ragione della mobilità, dei costi e dei vincoli di tempo ad una dispendio di energie non indifferenti che potrebbe essere di certo più contenuto se solo si pensasse che almeno una parte, solo una parte, ad esempio riferita alle lezioni meno impegnative che richiedono una minore interazione con la didattica visiva e frontale, si svolgesse con la modalità on line

L’ apporto in termini di contenuti non ne risentirebbe e potrebbe essere colto con continuità di tempo, con una disponibilità senza limiti spazio e con costi marginali bassissimi. E forse anche le stesse Università una volta fatto l’investimento potrebbero trarne non piccoli vantaggi in termini di conto economico.

Napoli li 7 aprile 2015

IL CASO NAPOLETANO DELLA FEDERICO II ” FEDERICA”.

Leggiamo con vivo compiacimento il volume “Federica Eu” della nostra Federico II di Napoli,  consegnato in uno al settimanale Sette del Corriere della Sera di oggi, intitolato a “Lezione con un click “! In esso si parla della nuova rivoluzione culturale che ha la forza di Gutenberg e la velocità di Internet. Solo qualche settimana fa in una conversazione con il Rettore della Federico II nel corso di una serata rotariana se ne ebbe a parlare. I Mooc ( Massive open online courses ) corsi on line aperti e pensati per una formazione a distanza ( con piattaforme varie  di Università Italiane che sfruttano persino produzioni di origine extranazionale ) sono un buon inzio, giacchè, pur essendo diretti a famiglie di utenti  le  più disparate, giovani, docenti,professionisti e semplici appassionati, non hanno ancora la finalità di erogare servizi di formazione per completare un intero corso di studi come fanno le Università Telematiche sopra citate figlie del provvedimento Moratti istitutivo delle Universita online.

Anche le Università al pari di tante altre Istituzioni ( Sanità, Giustizia)  sono nella fase storica di un passaggio epocale. La carenza nell’E-learning ci veniva rimproverata dall’OCSE già più di un decennio fa.  Il guado è lungo, perchè non bastano i dati citati nel volumetto, pur importanti, per connotare FEDERICA EU della patente di  Università on line  : 40 corsi, 600 lezioni, 10000 slides, 1800 video, 3000 immagini. E’ di certo un significativo passo in avanti ; costituisce la precondizione del progetto finale. Ma alle spalle occorrono ben altri investimenti e progetti di elevato contenuto organizzativo ad ampio impatto. Quel che serve è la possibilità di aiutare i giovani a cogliere tutte intiere le opportunità della formazione a distanza, consentendo loro di completare almeno per ogni corso di laurea una quota degli insegnamenti, quelli possibili, con innegabili vantaggi per la collettività tutta a fronte di investimenti che hanno un ROE elevatissimo. Le analisi costi e benefici sono sotto gli occhi di tutti specie quando i dati di conto economico sono importanti come quelli della Federico II in uno a quelli della platea di studenti, circa 85000.

si allegano anche i link dei pezzi comparsi su Repubblica edizione Napoli e Corriere del Mezzogiorno di alcuni giorni fa.

http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/arte_e_cultura/15_aprile_16/federicaeu-campione-web-learning-f2c497e4-e424-11e4-8e91-005682cf2ca0.shtml

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/04/16/anche-la-federico-ii-va-sulla-rete-lezioni-gratis-on-line-dal-21-aprileNapoli01.html?ref=search

Ricominciamo dal basso

 

Prendo lo spunto dal pezzo di Piero Ignazi pubblicato di recente sul settimanale l’Espresso intitolato “Un terremoto lungo un anno : è Renzi “.

Per caratterizzare il momento nel quale da poco più di un anno si è calata l’azione del Royal baby, come lo ha definito Ferrara e come meglio lo ha anche caratterizzato Friedman nel suo recente libro “ Ammazziamo il gattopardo”, affido alla lettura dei numeri la comprensione del contesto macro e socio economico del nostro paese.

Dalla loro lettura può trarsi il profilo di inadeguatezza del nostro sistema paese, politico e sociale, incapace di reggere la competizione imposta dal contesto globale e di continuare ad assicurare e garantire alla società il  Welfare previsto dalla carta Costituzionale oltre che dai principi generali, comuni, di solidarietà.

Molti dei dati del nostro sistema economico e sociale e molti dei deficit del nostro assetto organizzativo di paese non rappresentano neppure l’elemento più sconfortante se messi a confronto con quello dei valori e del disagio morale ed ideale nel quale il paese è sprofondato nel ventennio seguito ai grandi sconvolgimenti successivi al 92; data spartiacque, quest’ultima, che ha dato inizio al periodo che va sotto il nome di seconda repubblica.

La seconda, infatti, avrebbe dovuto cancellare gli effetti devastanti della prima emersi proprio da quella data con lo storico giustizialismo che produsse la cancellazione del sistema dei partiti.

Le responsabilità del ventennio (gli anni sono ormai  23 ) naturalmente non stanno da una sola parte. Ce n’è per tutti, nessuno escluso, ed anche per i cittadini abituati a chiedere sempre di più nel decennio di indulgenze che precedette la seconda repubblica e che diseducò gli italiani e i tanti organismi  e i tanti  corpi sociali che non hanno giammai rappresentato le istanze collettive ma solo quelle de ceto di riferimento.

Le responsabilità , infatti, vanno distribuite tra attori protagonisti del progetto di sfascio e tra compartecipi,  tra comparse consapevoli, silenti e consenzienti, tutte moralmente quanto meno da censurare.

E’ impossibile pensare che la politica non abbia avuto la percezione delle criticità di cui non hanno reso consapevole ed edotto il paese. Vicinanza, direttore del settimanale l’Espresso nel suo ultimo pezzo ” Se Renzi si affranca dal partito dei giudici” a proposito delle responsabilità politica  annota: ” certo le responsabilità non sono paragonabili ma il mix resta perverso”.

Cosi stando le cose Renzi, quindi, ci deve provare; la situazione è ormai al limite ed è augurabile che ci riesca.

Deve però guardarsi soprattutto dai gattopardi, come sostiene Friedman,  da quelli cioè che oggi vorrebbero la migliore legge elettorale dopo aver subito per anni il puzzo del porcellum , la migliore Costituzione che è oggi frutto di non poche e fuorvianti riforme prodotte anche dalla sinistra ; deve guardarsi meno dagli avversari, perchè noti come tali, e cioè dai grillini che vorrebbero uno stato giustizialista, perché loro , arrivati ad un seggio che mai avrebbero immaginato solo sino a qualche anno fa di poter conseguire , si sentono i soli portatori di purezza ed innocenza incontaminata; e meno ancora dai leghisti che vorrebbero una Europa migliore ma senza Euro purchè distribuisca quote latte agli agricoltori del Veneto dell’aspirante Zaia a carico della collettività. E’ inutile dire degli altri  e fors’ anche dell’ NCD che vive uno stato di difficile equilibrio tra le spinte verso la destra ed il centrismo in una logica difficile  di sopravvivenza.

Partendo da alcuni dati e risalendo piano piano alle iniziative appena avviate,  con un occhio a quelle in cantiere, si potranno trarre le necessarie conclusioni , immaginare cosa c’è dietro l’angolo e qual’e lo sforzo immane che si richiede e che sarà richiesto a tutti i corpi sociali naturalmente arroccati e resistenti verso i dolorosi cambiamenti.

Ignazi  dice che Renzi è figlio di un’altra epoca è “un leader politico senza ideologia e riferimenti politico culturali”: non è un dato negativo; tutt’altro.

Sta a significare che per il suo tratto generazionale, al momento, è senza condizionamenti e senza retaggi che possono, in questa fase, indebolire la spinta a cambiare in tutte le aree in cui si ravvisi la necessità di risistemare la società che va smontata pezzo pezzo per essere allineata ad un sistema di valori e regole più giuste ed allo stesso tempo più efficienti ed idonei per la competizione internazionale.

Questa la  premessa nella quale inserire e leggere i dati macroeconomici.

Ce ne offre l’occasione il recente Outlook economico dell’Ocse del Marzo 2015.

I dati macro economici dell’Italia vengono confrontati solo con quelli di alcuni paesi significativi e maggiormente indicativi dell’area Euro e dell’Ocse; ci dicono anche quanto sia modesto il nostro livello di competitività complessivo. Sono state selezionate solo sei nazioni per il commento.
I dati del quadro complessivo sono  disponibili con la lettura all’Outlook cui si rinvia per ogni utile approfondimento al link relativo che viene sotto appostato.

  1. Il Pil

L’Italia non cresce da decenni. Nel solo periodo che va dal 2012 al 2014 si sono persi 4,4 punti di PIL. Nel 2012 l’indice era al 97,8; scende nel 2014 a 95,6. Nel solo 2014 il Pil è invece diminuito dello 04 %; è passato cioè da 96 a 95,6.
Il 4,4% di Pil significa circa 60 miliardi € in soli quattro anni, miliardi cumulati che di fatto ogni anno costituiscono un monte risorse economiche e finanziarie in meno nelle tasche degli italiani e dell’economia.
Il dato è ancora più sconfortante se messo a confronto con quello di tutti i paesi dell’Europa, dell’area dell’Euro e con quello di alcuni paesi dell’Ocse.
La Francia nello stesso periodo passa da 102,4 al 103,3 e guadagna nove centesimi di punto; la Germania da 104 a 106,5, guadagnando 2,5 punti percentuali; anche la Spagna , che era caduta in basso come noi, perché attestata sul 97,3 [ contro il nostro 97,8 ], guadagna a sua volta un punto perché arriva al 98,3.
Inghilterra è Stati Uniti passano rispettivamente da 102,3 e 104 a 107,7 e 110,2.

Ma quel che più risalta e’ il fatto che tutti gli altri paesi, tranne la Spagna e noi, (naturalmente eccezion fatta per la Grecia che nel 2012 e’ all’85%) sono portatori di un indice superiore a 100.

Hanno in altri termini assorbito gli effetti della grossa caduta seguita alla crisi del 2008. Paesi come il Belgio e l’Olanda ,investiti pesantemente dai riflessi delle crisi bancarie contrariamente a quanto era accaduto all’Italia,  sono in fase avanzata di recupero e ricrescita.

  1. Consumi privati

Questo il dato del Pil cui corrisponde un analogo dato negativo dell’indice dei consumi privati.
Quello italiano passa dal 96,1 del 2012 al 93,8 del 2014, con un perdita percentuale di 6,2 rispetto al 2010 corrispondente a circa 90 miliardi di € cui occorre aggiungere un altro punto dei consumi pubblici, cioè della pubblica amministrazione.
Stabile invece l’indice della Francia a 101; in aumento naturalmente l’indice della Germania da 103 a 106,1 con un più 3% che per i tedeschi, in ragione del loro Pil, significa quasi 75 miliardi di €.
Di assoluto rilievo tendenziale in positivo gli indici di Inghilterra e Stati Uniti che guadagnano il primo 4,5 punti ed il secondo 6,6 punti. Ma anche altri paesi non sono da meno.

Quando si vogliono fare critiche alla politica, per ciò che ha fatto e per ciò che non ha fatto, è da qui che bisogna ripartire  per capire in quale contesto opera il paese e di quali cure e rimedi ha bisogno, cure che non sono solo quelle di natura economico finanziario ma soprattutto quelle di natura strutturale , come meglio si potrà capire quando si esamineranno altri indicatori.
Gli altri paesi, forse, hanno già fatto prima le loro riorganizzazioni visto che, al momento, non ne sentono il bisogno.

Ma andiamo avanti con i numeri.

  1. Gross fixed capital formation

Con l’indice ad 89,0 nel 2012 il nostro Gross fixed capital formation, che esprime il processo di formazione degli investimenti, passa nel 2014 a 80,6. Si tratta di un meno 20% di investimenti necessari per alimentare il processo di produzione, la ricostituzione del capitale fisso, di quello circolante, per sviluppare innovazione e creare le condizioni per aumentare la produttività e l’efficienza di sistema.
E, siccome è a tutti ben noto che le risorse endogene sono scarse, non vi può essere altra soluzione per integrarle che incentivare quelle esogene, cioè esterne, creando però le condizioni per stimolarne l’ingresso.

Qui il discorso si fa ancora più complesso legato com’è a tutto una serie di quadri regolamentari che negli ultimi vent’anni per quanto non siano stati migliorati risultano addirittura peggiorati e non di poco. Basta pensare a tutti i provvedimenti che sono in cantiere per far diventare l’Italia un paese appena appena più normale. Mi astengo dal citarli sono a tutti noti e da tutti contrastati perchè tendenzialmente diretti a rimuovere le acque stagnanti del paese invaso da melme diffuse.

Al contrario l’indice tedesco del Gross fixed Capital passa da 106,5 a 109,8, mentre quello francese evidenzia solo una piccola sofferenza perché passa da 102,3 a 99, ma sempre vicino a quota 100 quota che quantomeno non espone una caduta come quella italiana fatta di ben 20 punti in quattro anni.

Inghilterra è Stati Uniti hanno invece fatto un grosso giro di boa ; il primo paese passa da 103,1 a 114 , il secondo da 109,2 a 119,2. In altri termini in quattro anni il paese d’oltremanica ha visto una crescita degli investimenti di 14 punti, quello d’oltreoceano di 20 punti.
Quasi tutti i paesi dell’Ocse sono in zona positiva, cioè con indice superiore a 100 base al 2010, tranne Portogallo, Spagna, Grecia, e naturalmente l’Italia.
L’Italia non investe: è un dato strutturale che dipende solo dalla domanda ? o ci sono ragioni anche diverse legate alla imprenditoria, alle formazione del risparmio, al quadro regolamentare, al clima di sfiducia etc etc.
.

Altri due dati significativi

  1. Disoccupazione

Il dato della disoccupazione nel 2015: Germania 4,7, Francia 10,2, Stati uniti 5,7, Spagna 23,4, Inghilterra 5,6, Italia 12,6.

Nel periodo che va dal 2008 al 2014 la Francia fa registrare un crollo di soli 34.mila occupati a fronte di circa 27 milioni di lavoratori, la Germania fa registrare una crescita di 2 milioni circa di posti di lavoro a fronte di una massa di occupati di 49 milioni circa ( 24 milioni in più dell’Italia a fronte di una popolazione di circa venti milioni in più rispetto a noi ), la Grecia una perdita di circa 980 mila addetti su il numero di poco più di 3,9 milioni , l’Italia una caduta di 1 milione circa di addetti su una massa di dipendenti di 24,3 milioni; la Spagna perde circa 3 milioni di occupati su una circa 18,4 milioni di occupati.

Ci sono due /tre economie che hanno il dato positivo della quasi piena occupazione, Stati Uniti , Germania ed Inghilterra , mentre tutti gli altri hanno raggiunto il livello più alto della criticità nel mondo del lavoro. Non è un caso il fatto che sia stato coniato il termine Pigs per indicare i quattro paesi dell’Ue posti sotto diverse regole di osservazione e controllo (Portogallo ,Italia, Grecia e Spagna ).

  1. Produzione industriale

Ai dati della disoccupazione corrispondono quelli della produzione industriale che con base 100 al 2010 così si presentano nel 2014 : Spagna 90,9; Germania 111,1; Inghilterra 97,4 ; Stati Uniti 117,1; , Francia 96,8; Italia 91. In altri termini c’è un riflesso speculare tra il dato della produzione industriale con la caduta della occupazione:  entrambi  determinano la caduta del Pil.
In Italia la perdita dei posti di lavoro viene condivisa divisa a metà tra il settore dell’industria primaria ed il settore dell’edilizia. Non altrettanto è successo nel settore mercantile e dei servizi che grosso modo ha mantenuto anche per effetto di compensazioni il livello generale degli occupati.

  1. Una notazione a parte merita il settore dell’export ed import.

Con base 100 al 2010 un pò tutti i paesi sono cresciuti per effetto della domanda trainante dei paesi extra OCSE.

E così gli Stati Uniti guadagnano l’indice a 119,3, l’Inghilterra l’indice 106, la Germania l’indice a 117, la Francia l’indice 113,3, la Spagna l’indice 118,8 e l’Italia l’indice 111,1.

All’indice corrispondono i seguenti dati in $: Germania 1510 miliardi di $, pari al 39,1% del Pil ; Francia 581 pari al 20,5 % del Pil; Spagna 323 pari al 23 % del Pil ; Inghilterra 474 pari al 16,1 del Pil ; Stati Uniti 1623,27 pari al 9,4 del Pil ed infine l’Italia con 528 miliardi di $ pari al 24,6 del Pil. Il dato della Francia comprende nella voce principale una grossa quota di esportazione dei servizi ; l’Italia è sicuramente seconda dopo la Germania nella esportazione dei beni che è il vero valore positivo che ci caratterizza e ci pone prima della Francia e dell’Inghilterra e di tutti gli altri paesi Europei. Per la Francia in particolare va anche detto che una grossa quota dell’export è data dalla vendita dell’Energia a cagione del peso determinante nella produzione di energia nucleare di cui anche noi siamo fruitori e compratori.

Balza prepotente all’occhio il dato della Germania che vende circa il 40 % del suo fatturato a terze economie, con l’altro impressionante dato di un avanzo della bilancia commerciale di ben 295 miliardi di $. Anche l’Italia nel settore porta a casa un discreto avanzo commerciale, di circa 56 miliardi di $, in parte conseguenza dell’accresciuto livello delle esportazioni, pur dinanzi ad una caduta delle produzione industriale, come si è visto sopra, ma anche figlio della caduta delle importazioni che dall’indice base 100 al 2010 nel 2014 passa al 91,8 con un meno 8 punti circa di import per la caduta della domanda dei consumi e degli investimenti.
Tutti gli altri quattro paesi citati nella nota versano invece in una situazione di disavanzo strutturale sistemico.

Questi solo alcuni dei dati macroeconomici che mettono in piena luce lo stato della nostra economia, da cui occorre ripartire e cioè dal basso.
Il lavoro che attende la politica è quello di ricreare, attraverso un quadro regolamentare con impatto e ricaduta generale e attraverso le riforme strutturali di processo nella Pa le condizioni minime di una ripresa, incidendo per quel che è possibile sul contesto interno, su ciò che in effetti è possibile modificare con le leve disponibili della politica.

Altri miracoli non sono a portata di mano.

I risultati dipendono oltre che dal trend dell’economia mondiale e dagli indicatori che la caratterizzano, sui quali l’azione delle politiche nazionali poco possono fare, dalla capacità di incidere in Europa sulle politiche di rilancio degli investimenti nell’area ma soprattutto dalla produttività dell’intero sistema paese e dal valore aggiunto che sapremo e riusciremo a ricostruire.

QUESTA LA PRIMA PARTE

Ocse Main Economic indicators Marzo 2015

 

Nei successive pagine saranno ripresi tanti altri elementi destinati a completare il quadro di riferimento complessivo del sistema nazionale

Le fonti saranno sempre quelle dell’OCSE  per il settore finanziario quelle del FMI.
I paesi saranno sempre quelli sotto rassegna per la vicinanza e la possibilità di instaurare confronti che facciano capire come siamo e cosa facciamo e perché negli anni il nostro debito è cresciuto in maniera eccessiva.

 

La risorsa sulla quale contiamo: la fiducia

Dall’ultimo outlook OCSE sull’Italia per le SMES ( small and medium enterprises) si leggono alcuni dati sui quali pare utile soffermarsi.

Peggio di noi solo la Grecia che dall’indice del Gdp ( Pil ) 92,9 del 2011 passa all’83 del 2013. Un vero capitombolo che non ha il corrispondente per l’Irlanda, pure entrata in crisi e che è sotto warnig in Europa, che segna sei punti di crescita da 102 del 2011 a 108 del 2013 e neanche per la Spagna che registra il seguente dato : da 100 a 98,2 del 2013 con un -1.8% .L’Italia è invece in buona compagnia del Portogallo che da 98,2 passa a 94,3 , quindi con un meno – 6.

Il dato portoghese in parte ci consola visto che il nostro indice , fermo ormai da tempo con un -6 % in cinque anni, nel periodo in rassegna , cioè dal 2011/2013, passa da 100,6 a 96,1 con una delta negativo di -4,5 corrispondente ad un pil di circa 60 miliardi di €. Una differenza di Pil annuale che si traduce in un meno 60 miliardi all’anno di GDP.

Nelle prime pagine dell’outlook si legge inoltre che l’expenditures ( le spese ) del governo centrale sono di ben 5,6 punti superiori alla media dei paesi OCSE, ( Italia 50,6% average Ocse 45% rispetto al GDP- prodotto interno lordo ), e che le revenues, gli incassi della Pa, sono di ben 9 punti superiori alla media del gruppo di nazioni esaminate ( Italia 47,7% contro 38,1% rispetto al GDP); si può ben comprendere quale sia la percezione dell’Italia non solo nella Comunità ma nel gruppo delle nazioni sotto i riflettori dell’Ocse, ma anche quale sia lo stato reale della nostra economia nazionale e la grave situazione che si è determinata.

Questi solo alcuni dei dati che dovrebbero indurci a riflettere.

Questi ultimi,ben noti ed analizzati da anni, sono la conseguenza di deficit strutturali che non riescono far partire e ripartire l’Italia; si capisce perché gli aggiustamenti che il governo attuale sta tentando di fare sono solo l’inizio di un processo più ampio che deve incidere in profondità sugli assetti sociali, strutturali , finanziari ed istituzionali della nostra bella Italia , considerata non a torto il bel paese ma bello solo per pochi e matrigna nei confronti di tanti.

E non si riesce, invece, proprio a capire come possano avere seguito gruppi di opinione e partiti che suggeriscono soluzioni rapide e fantasiose a supporto dei loro programmi con i quali vorrebbero rimettere in piedi l’Italia:

A) abbassare le tasse al 15% , aliquota unica; le conseguenze sarebbero nefaste ed inimmaginabili per tutte le funzioni dello Stato che non sono solo quelle del pagamento degli stipendi e/o del sostegno alla politica, da ridurre drasticamente, ma anche tutte le altre di natura sociale ed istituzionale; viene a proposito la recente relazione ( di questi giorni) della Corte dei Conti che fa una spietata analisi che individua tra le cause e le ragioni di questo disastro le insufficienze dei doveri fiscali di solidarietà da parte di fette importanti della società.

B) uscire dall’Euro perchè l’appartenenza ci costringe ( e meno male che ci costringe , altrimenti saremmo stati già nelle fosse del Pacifico non annegati ma divorati dai pesci voraci dei fondali ) a non spendere a debito ritornando alla liretta nazionale per incentivare le esportazioni; non capiamo quanto in buona fede sono quelli che lo sostengono ,su cui c’è da dubitare, perchè non ricordano del pari che l’Italia è un paese trasformatore che compra tutte le materie prime e le energie , materie che costerebbero molto di più e che determinerebbe un aggravio che nel volgere di poco tempo ci porterebbe alla fame.

Alle proposte fantasiose e temerarie di cui sopra corrispondono poi iniziative dei sindacati che pensano di agire con le vecchie modalità dello sciopero generale senza bilanciamenti e senza immaginare soluzioni innovative che aiutino le imprese ancora vitali ad accrescere produttività ed efficienza ; insomma continua a valere la regola del tutto dovuto a tutti e in maniera generalista per chi è dentro il sistema senza uno sguardo complessivo alla tenuta dell’intero sistema sociale.

E non è tutto: le resistenze sono generalizate.

Fa il resto la mancata condivisione alle proposte di rinnovamento delle lobby e corporazioni che difendono privilegi e rendite; lobby e corporazioni e parte del ceto sociale non intendono farsi carico di un processo di efficientamento della società costruita un pò dappertutto con pratiche burocratiche che poco aggiungono nella generazione del valore al sistema economico con attività di intermediazione e mediazione da razionalizzare che sinora hanno rallentato lo sviluppo della agenda digitale unica strada per avvicinarci ai paesi virtuosi dell’Europa , dell’America e dell’Asia .

E’ pur vero che una volta sistemate alcune priorità sarà opportuno, anzi doveroso e di sinistra, incidere sul tema delle disuguaglianze eccessive e sulla finanza che assorbe risorse oltre modo ed oltre il livello che deve rispondere ad una logica di risorsa strumentale, funzionale al sostegno del sistema di impresa e dell’economia in generale.

Nessuno oggi può più mettere in dubbio la funzione e le finalità del sistema finanziario; quando esso si fa carico di svolgere il ruolo fondamentale di gestione della ricchezza e di ridistribuzione delle risorse da economie in eccesso rispetto ad economie in deficit che ne sollecitano l’impiego è vitale ed essenziale per gli assetti economici.

Sono da correggere gli eccessi di finanziarizzazione senza però portare il sistema Italia in uno stato di incapacità competitiva che sarebbe molto peggio nel confronto con le economie degli altri paesi che fondano anche sulla finanza una parte significativa della loro forza ( vedi Germania, Francia ed Inghilterra per non dire degli Stati Uniti).

Parte della politica , del sindacato e della società, il dato di senso è un pò comune a tutta la società civile, non si è ancora resa conto che la globalizzazione ha sconvolto le regole tradizionali della conflitto e della competizione; sono venuti meno schemi e modelli che valevano in un contesto meno ampio e territorialmente più contiguo ( Europa contro America , all’ interno della stessa Europa). La globalizzazione, che ha consentito a paesi poveri di sollevarsi e quindi di ridurre la povertà globale del sistema e la condizione dei mercati globali, impone una competitività allargata con regole nuove e non tradizionali. ( vedi le charts allegate)

Capire che la sistematica conflittualità ad ogni costo alimenta solo l’orto del particolare è forse anche un dovere etico e morale; solo il ricorso a ragionevoli soluzioni, che pongano il tema della globalizzazione come termine di confronto in ogni problema, può aiutarci a superare la profonda criticità di sistema che è frutto di una sedimentazione di anni di cattiva governance su cui tanto si è detto e scritto.

Della globalizzazione non possiamo e non potremo fare a meno perchè aiuta tutti, anche noi, indirizza i mercati verso l’ottimo e gli equilibri e non sarà certo l’Italia a dettare le regole.

Figurarsi poi se questa competizione anzichè farsi con una struttura qual’è la UE, dall’interno, pensassimo di farla come dicono alcune aree della politica da soli nell’oceano dell’economia e della finanza. Forse non è noto, e vale la pena qui di ricordarlo, che i dati delle transazioni mondiali vedono il $ ( dollaro) al primo posto con una quota del 65/67% e che l’Euro copre un 23-25% ; a tutte le altre monete compreso Yen, Rublo , Rupia, etc etc.solo rimane solo il 10%. Questo significa pur qualcosa in termini di competizione e di forza.

Come si fa a non rendersene conto ? come si fa a non aprire gli occhi e a non svolgere una funzione di education sul nuovo che è ormai gia avanzato e che non conosce vie di ritorno ; che impone profonde modifiche nei modelli sociali, nella competizione, negli strumenti d’impresa ed istituzionali ed un lavoro corale di risistemazione delle cose che non vanno anche in Europa.

Dopo una ipotetica destrutturazione dell’esistente, a cui spingono talune frange oltranziste, sarà tutta la collettività ad impoverirsi con un ritorno al passato senza fine. ( E si è certi che non vincerebbe nessuno e tanto meno chi oggi ha pure ragione ad invocarla per il dislivello sociale ed economico nel quale versa, perchè è altrettanto certo il rischio di diventare ancora più deboli in mancanza di tutele sociali e di welfare in una società con risorse sempre più ridotte).

Una lettura meditata e consapevole di tanti dati disponibili deve aiutarci a capire ed a comprendere che oggi, dopo i vent’anni e passa di cattiva gestione pubblica occorre fare uno sforzo di risistemazione; ed occorre farlo soprattutto prioritariamente nelle aree dove si individuano eccessi a beneficio di quella parte della popolazione che sente le criticità di un sistema troppo squilibrato: i veri poveri ( quelli veri sul serio) , i disoccupati, i giovani.

E finanche nel sistema delle imprese tra quelle che sopravvivano solo grazie a rendite di posizione , di monopoli e grazie a sostegni immeritati con una attenzione che privilegi quelle che si orientano all’ innovazione ed al cambiamento, che investono in capitali di rischio e che consentono all’Italia di poter difendere i mercati e di occupare tante risorse ( le SMEs). L’outlook evidenzia infatti la forza delle aziende medio piccole spina dorsale della nostra economia.

Per fare ciò occorre un disegno politico/ industriale “illuminato” da calare nella società ; occorre ricostruire la catena del valore e del merito in ogni angolo del sistema guardando al meccanismo redistributivo che deve essere di aiuto anche alla domanda , disencintivando altresi la formazione di risorse finanziarie in eccesso che non vengono spese o immobilizzate , che rappresentano solo fonti di rendita e non anche capitale per principiare nuove imprese.

La caduta dei tassi nel mondo è il segnale più palese di questa condizione di enorme ricchezza finanziaria che non sa dove collocarsi e che è alla ricerca di nuove opportunità. I dati della crescita dei fondi e degli aggregati finanziari sono li a testimoniare questa anomalia che J.M Keynes definì il paradosso del risparmio. Troppo risparmio storpia : non è positivo per l’economia.

Altri dati sono tutti li a confermare che siamo una società ferma, che siamo ad un giro di boa, all’ultima spiaggia in un paese che vede crescere il valore aggiunto del settore primario solo del 2% contro il 2,6 della media OCSE, che ha una popolazione di under 15 ( i giovani e le potenzialità del futuro) al 14% della popolazione contro il 18% dei paesi Ocse dove nascono più bambini e che ha una popolazione over 65 del 20,5% contro il 14,9, media degli altri paesi, con tutto ciò che ne consegue. Mancano le nuove leve e siamo un paese di vecchi.

Al momento ci aiuta solo un dato positivo ricostruito con pazienza negli ultimi due, tre anni: la fiducia.

“Nel 2015 scadono 141 miliadi di BTP. Annata di rimborsi pesanti allegerita se il costo del rifinanziamento resterà ai minimi storici come quello attuale raggiunto dalla crisi del 2008. Ma i mercati sono perplessi : chi compra i BTP decennali sotto al 2%.” Sole 24 ore del 30 nov.
Qual’è la risorsa messa in campo in assenza delle ristruttuazioni che sebbene annunziate non sono ancora avvenute e che quando saranno state fatte spiegheranno gli effetti dopo un certo tempo : la fiducia. La fiducia nella volontà del fare e nella credibiilità delle promesse annunziate , accompagnate da una solida determinazione; una fiducia che al momento ha generato circa 10 miliardi di minori oneri sul debito in soli due anni.

Ma i mercati come la danno cosi la ritirano. Cosi prosegue la Bufacchi sul sole 24 di qualche giorno fa. “ I portafogli esteri sono ancora lontani dai picchi degli Holdings in BTP . Il risultato delle elezioni in Emilia Romagna , per la sorprendente ascesa di Salvini antieuropeista non è proprio quello che si dice “ market friendly”. Una delle domande che si pongono i gestori dei fondi esteri, soprattutto non europei, è se l’Italia e gli Italiani sono favorevoli oppure contro l’Euro. Il voto di protesta di Grillo non aveva impensierito i mercati neanche quando Grillo urlava nelle piazze “abbassa l’Euro e ristrutturazione del debito pubblico”. Altra cosa è Salvini che trasforma la disoccupazione in antieuropeismo e stringe intese con personaggi come Marie Le Pen.”

L’Italia e gli Italiani sono avvertiti. Dobbiamo sperare che la fiducia non venga meno , che la ragionevolezza degli italiani non la metta in crisi e che soprattutto le riforme annunziate diventino quanto prima , e ad ogni costo, concrete, altrimenti le tante considerazioni ricostruite sul mercato scemeranno all’improvviso e le derive saranno questa volta immediate e rapide.

Per dare senso e valore alle considerazioni svolte sono stati estratti dati e charts da fonti autorevoli.
Sono li a corroborare gli assunti peraltro abbondantemente trattati dalla stampa con un focus spesso troppo orientato al giornalismo e meno all’idea di fare un lavoro di education.
Se ne sente il bisogno: una volta era mission di entità politiche e partitiche nelle quali si credeva.

.

Vedi nelle charts allegate, aprendo il link dati della povertà nelle diverse regioni del mondo tempo per tempo e sulla base delle previsioni tendenziali.

Non a torto si sostiene che riduzione della povertà sia la conseguenza della globalizzazione che sposta risorse, competenze e imprese e fattori della produzione alla ricerca della allocazione ottimale e degli spazi di competizione aggredibili. E’ impressionante leggere che nell’East Asia e nel Pacifico , nel Sud dell’Asia e nell’Asia Centrale già nel 2015 si registrerà un calo decisivo con una tendenza all’azzeramento delle povertà nel 2030.I poveri diminuiscono da unmiliardo 940milioni del 1981 a 1 miliardo circa del 2011 e diventeranno 835 nel 2015, 696 milioni nel 2020 , 411 milioni nel 2030. Rappresentano nel 2011 il 15% della popolazione contro il 39% del 1981.

Chart della graduatoria della corruzione siamo al 69 posto insieme a Grecia, Romania ,Senegal.
I nostri partners europei ci precedono e ci danno lezioni.

Chart del doing business della facilità di fare business, di avviare imprese siamo al 56 posto preceduti da tutti i nostri partners che a ragione si fanno protagonisti negli investimenti dall’estero relegandoci a ruoli marginali.

i dati della povertàDall’ultimo outlook OCSE sull’Italia per le SMES ( small and medium enterprises) si leggono alcuni dati sui quali pare utile soffermarsi.

I diritti del cittadino digitale, la mano morta della pubblica amministrazione supportata dalla mala politica.

Quanto di ciò che è stato scritto, nel 2009, su carta ed on line sul giornale “Cilento Channel” è ancora da attuare? Quanto è solo una idea e non una vera opportunità di partecipazione?

Una cosa è certa: i cittadini hanno una quantità di diritti sanciti in norme di carattere generale, addirittura in Codici, (è il caso del CAD) che sono inespressi e disattesi, perché di essi, e lo si può constatare ogni giorno, non vi è piena consapevolezza.

E’ da qui che deve ricominciare il processo della Agenda digitale dello Stato e di tutti gli Enti ed Istituzioni connesse, non solo dalle infrastrutture, pure da completare, e dai processi applicativi da ricondurre ad integrazione, vista la inevitabile disarmonia dipendente dai tanti centri di governance , amministrativi e politici; quel che più conta ed importa è la alfabetizzazione dei cittadini da sempre poco informati e sensibilizzati per l’assenza di centri di responsabilità dedicati ed orientati a far crescere la cittadinanza digitale. Tanto ora risulta scritto anche nel documento dell’Agid ( Agenzia digitale ) sul programma per la crescita della cultura digitale. Ma sono anni che se ne parla.

 Pubblicato nel 2009

Cominciamo dalla E-democracy.

Filone portante dell’azione di rinnovamento pubblico attraverso la IT ( information tecnology), punto cruciale dell’E-government, la e-democracy ha visto rafforzati i suoi principi, già contenuti nell’intero quadro legislativo comunitario e nazionale preesistente , in una legge dello Stato : “Legge 7 giugno 2000 n. 150 , GU 136 del 13 giugno 2000” seguita da regolamenti successivi e da direttive ministeriali.

Riguarda tutte le amministrazioni dello Stato, le Regioni, le Province, i Comuni e tante altre istituzioni; attiene alla informazione ed alla comunicazione istituzionale che non può limitarsi ad un ufficio stampa, ad un addetto, a comunicazioni formali, di routine o a momenti di immagine.

Contiene e descrive un processo sostanziale che deve tendere a far conseguire una informazione diffusa, sistematica, approfondita, attraverso stampa, Web Tv, audiovisivi, attraverso strumenti telematici, di natura esterna quando si rivolge ai cittadini, alla collettività e ad altri enti, di natura interna quando riposa su sistemi di organizzazione dell’ente dediti alla mission istituzionale.

Mira a favorire la conoscenza delle disposizioni normative, l’accesso ai servizi pubblici; a promuovere conoscenze allargate ed approfondite sui temi di rilevante interesse pubblico e sociale; ad introdurre processi di semplificazione della attività amministrativa, a produrre visibilità sulle decisioni amministrative e sulle ragioni sottostanti, sugli scopi e sulle finalità dei provvedimenti.

Tende in altri termini a generare prodotti informativi di qualità, di sostanza, da tradurre in progetti di e-government, in dotazioni di strumenti ed apparati, di servizi, da definire in un programma annuale di comunicazione, capace di generare una interazione delle PA con la cittadinanza per facilitare un miglioramento dei processi decisionali e delle scelte strategiche, soprattutto di quelle che hanno ricadute sostanziali per la collettività.

I principi legislativi e le norme che le esplicitano devono assurgere a sistema, a modello di relazione fondato su un complesso di assetti organizzativi assorbenti che non esclude niente e nessuno.

E per essere cosi come descritta all’interno della istituzione la pratica della “e-democracy” deve poter contare su risorse idonee oltre che sulla volontà strategica della governance pubblica.

Naturalmente qualcuno si chiederà se quanto è previsto nei diversi ordinamenti, se ciò che viene scritto ed ipotizzato in linea teorica ha delle realizzazioni. La risposta non è semplice.

Il progetto di e-government che sta alla base è alla la soglia del decennio.

Chi lo ha presidiato, sul piano culturale e della conoscenza da sempre, sa cosa è cambiato (tanto), quanto sia salito il livello delle informazioni in qualità e quantità, quanti enti e quali si relazionano realmente con le comunità di riferimento,e quanti passi da giganti sono stati fatti e dove.

Sarebbe bene che ciascuno analizzasse il suo mondo facendo uno sforzo di benchmarking per capire quanto la sua realtà di riferimento politica, amministrativa ed istituzionale si identifica nelle cose scritte innanzi.

Le 22 Regioni, le province 107, i comuni 8101 gli altri Enti, nessuno escluso, sono poi solo una parte dei destinatari degli obblighi cui si aggiungono la Pubblica amministrazione Centrale e gli Enti ed Organismi che costituiscono lo Stato allargato.

Nel paniere c’è di tutto: ci sono i bravissimi, i bravi, i meno bravi e gli assenti.

Ne consegue che le comunità assumono la qualità dei loro momenti rappresentativi; sono virtuose, non virtuose, assenti anch’esse o addirittura agnostiche ma di fatto rispecchiano l’orientamento delle amministrazioni a cui appartengono.Talvolta sono le stesse comunità a pungolare le amministrazioni e ad indurle a scegliere modelli relazionali innovativi che aboliscono l’albo pretorio cartaceo di antica progenitura. E’ il minimo.

Si può solo segnalare che nel decennio passato le opportunità sono state tante e che non sempre sono state colte.

Bandi, finanziamenti, progetti di e-gov nazionali o regionali non hanno visto le città che meglio conosciamo né tra quelle che divenivano assegnatarie o protagoniste della competizione nè tra quelle che concorrevano da sole o insieme ad altre.

Rarissime sono state le partecipazioni e modesti i risultati. Solo di recente si è letta qualche buona notizia e si sono visti passi in avanti verso una sorta di comunicazione passiva (monodirezionale) dei soli contenuti formali (delibere dell’anno, provvedimenti etc etc …). Ometto gli esempi per carità di patria.

Ad essa non corrisponde un progetto di interazione di sistema.

L’E-democracy è tutt’altra cosa.

Giugno 2009 Federico d’aniello

Nota di aggiornamento

La lista delle attese sulla piena digitalizzazione della nostra società è ancora molto lunga.

I ceppi più critici e le condizioni di insufficienza che la connotano non sono pochi. Tra essi la inadeguatezza più seria è da ricondurre, come accade per tante tematiche che hanno reso esiziale l’assetto istituzionale del titolo V della Costituzione, nella polverizzazione dei sistemi, dei processi e delle procedure che non è solo questione degli apparati centrali (Tanti Ministeri, tanti data base e tante informatiche) ma anche agli apparati periferici.

L’assurdo è che ancora oggi i Comuni sono tante isole, le ex Province altrettanto e le Regioni mondi nei quali la forza dell’autarchia è divenuta “autarchia” non solo gestionale, amministrativa ma anche informatica.

Chi ha la pazienza di leggere la lista qui acclusa (monitoraggio che viene fatto dal Parlamento ) sicuramente individuerà tra scogli da superare, da rimuovere e da demolire la disaggregazione dei data Center che si assomma alle inefficienze di uno sviluppo applicativo incapace di far parlare le diverse amministrazioni e le diverse funzioni almeno a livello regionale.

Renzi ha indicato nella IT della Pubblica amministrazione uno degli snodi sui quali fare perno.

Quando lo ha detto forse non aveva ancora valutato che la burocrazia che lo ostacolerà si serve anche della leva dell’It per rallentare. Tutto in chiave legislativa è, infatti, già stato scritto da anni (l’esempio è quello della legge sovra richiamata sulla e-democracy ); le mancate attuazioni, alcune dipendenti dai decreti e dai regolamenti non ancora emessi, sono legate agli interventi di sistema tutti da realizzare che dovrebbero incidere in radice sui poteri degli organi ed organismi della burocrazia attaccati , che vedono la Information tecnology come una leva di cambiamento tesa a trasformare gli assetti da burocratici in “adocratici” ed a disintermediare il tutto con semplificazioni notevoli.

Con eliminazione di passaggi, di ruoli, di posizioni gerarchiche, di adempimenti e quindi di uffici, di controlli a basso valore aggiunto, di fasi deliberative e delibative affidate alle dirigenza, insomma di una serie non piccola di aree di privilegio e di gestione di adempimenti diversamente espletabili.

Il delta della inefficienza/efficienza derivante è stato valutato, non ora, ma da anni dalle società di consulenza in una significativa percentuale del PIL nell’intero paese. E certamente il settore pubblico è quello a maggiore capacità di contribuzione.

Non bastano, però, per realizzare un disegno così complesso solo competenze gestionali alte, occorrono uomini di progetto ed expertises capaci di governance strategiche, tecniche e tecnologiche salde e risorse per il cambiamento che sono una merce rara del sistema Italia e lo sono tanto più nelle pubbliche amministrazioni che per definizione sono particolarmente versate nella funzione del burocratese.

Forse varrebbe la pena di farsi aiutare da “risorse esterne”, da quelle che lo fanno per mestiere e che da anni hanno contribuito a rivoluzionare il sistema bancario e tante altre realtà.

Dopo aver letto giorni fa un pezzo sulla storia ironica del cammino cartaceo delle leggi e dei decreti nei passaggi tra i ministeri mi sono persuaso e convinto che il cammino è ancora lungo.

Ed ho anche capito perché solo dopo dieci anni e più dalla emanazione della legge si è dato avvio al processo telematico nel settore della giustizia civile.

Ma quante altre situazioni del genere attendono di essere portate a compimento? Non poche: tra queste vi è sicuramente anche la Sanità, altra roccaforte di potere difficile da espugnare anche perché distribuita in 22 principati assolutamente ingovernabili ed ingovernati, come stiamo vedendo da tempo.

Alla luce di ciò che si legge si può accreditare di buona fede l’operato di quanti dovrebbero provvedervi ?

Le resistenze sono tutte battaglie di retroguardia destinate a capitolare , non perché c’è la voglia ed il furore sacro delle azioni; ma soprattutto perché c’è chi ce lo impone nell’interesse del gruppo, quello europeo ben s’intende, che non può permettersi di trasportare carri più lenti pena il deragliamento collettivo.

Perché forse non è neppure del tutto chiaro il disegno complessivo che non è dato solo dalla messa a regime dei sistemi nazionali ma dalla più ambiziosa integrazione delle banche dati, miniere di conoscenza, e dalla connessione delle autostrade telematiche a livello di Comunità per una competizione di natura trasnazionale tra aree mondiali.

Un esempio? quello della finanza, delle banche e dei sistemi di pagamento.

Senza di che ora saremmo tutti al tappeto. Ma forse anche di tanto non c’è poi tanta consapevolezza.

E di tutto ciò non si dà mai atto all’Europa.

Talvolta mi chiedo se le formazioni politiche ed i gruppi di opinione che la avversano hanno veramente la consapevolezza di quello che dicono.

 

Federico d’aniello

Legge 7 giugno 2000, n. 150

lista delle attività della Agenda digitale a Marzo 2013

Bilancia dei pagamenti ad Aprile 2014

Bollettino Banca d’Italia n 34. Periodo sotto osservazione Aprile 2013/ aprile 2014.

Segnalare con una certa sistematicità alcuni dei dati della economia nazionale ed internazionale può essere utile per capire meglio le cose di casa nostra.

I punti di forza del nostro paese, nonostante tutto, sono costituiti dai dati del settore manufatturiero, settore che continua a produrre buoni risultati a dispetto di una dinamica del prezzi non del tutto favorevole e del valore dell’Euro. E’ un grosso aiuto alla nostra fragile economia.

Lavorare sui punti di forza dovrebbe rappresentare una della indicazioni pivot delle strategie economiche e aziendali. La politica deve tenerne conto.

Di converso vengono all’attenzione, come si leggerà in seguito, anche i punti di debolezza per i quali non si sta facendo molto se non ripeterli e citarli.

Dati rassegnati sul volume numero 34 di giugno 2014.

Il risultato dei dodici mesi ad aprile 2014 della bilancia dei pagamenti segna un saldo di +22,8 miliardi (  contro un +0,3 dell’aprile 2013 ), dato che nasce da un + 42,6 miliardi di surplus delle merci rispetto ad un – 22,4 miliardi per “redditi e trasferimenti” in uscita.

In altre parole mentre la bilancia commerciale ci dà un interessante risultato di 43,6 miliardi , ascrivibile quasi tutto manufatturiero ( bassa è l’incidenza dei servizi, pure in avanzo) i residenti, al contrario, continuano a trasferire all’esterno risorse finanziarie in termini di redditi ed altro, per 22,4 ( di cui 8,4 per redditi e 14,08 per trasferimenti ).

Il conto commerciale dà il segno della vitalità del nostro sistema, nonostante tutte le criticità note ; il dato di natura finanziaria attinente il conto degli “investimenti diretti e degli investimenti di portafoglio” si presenta di contro con un deludente segno meno per un valore di -32,9 miliardi. Anche le riserve ufficiali si abbassano. Erano 147 miliardi nel III trimestre 2012; sono ora di 105,5.

Le transazioni che riguardano titoli azionari ed obbligazionari, quote di partecipazione, vedono acquisti dei nostri residenti all’estero per 13,2 miliardi ed acquisti dei non residenti sul sito patrio per 57 miliardi , con un saldo positivo di circa 42,7 miliardi in entrata ( dato molto interessante, perchè segna l’apprezzamento degli altri mercati verso i titoli rappresentativi di quote delle nostre aziende, che si esprime sia con acquisti di azioni che di obbligazioni e di titoli in genere  ); il dato in termini finanziari viene annullato dal corrispondente dato negativo in uscita di 77,9 miliardi costituito dall’accensione di crediti commerciali, prestiti, depositi ed altre transazioniSu quest’ultimo continua a pesare la restrizione del credito da parte delle banche italiane.

 

Gli indicatori di competitività basati sul prezzo dei manufatti, con base 100 al 1999, dicono che nel periodo in Italia i prezzi sono cresciuti dell’1,4 (ora 103,4), che si mantengono stabili in molti paesi ( Germania 94,5 ) ( Francia 96,7), che sono diminuiti del 20% in Giappone ( arrivato ad un indice del 69,9) con un avanzo di 44 miliardi di $ nella bilancia commerciale negli ultimi 12 mesi, che sono leggermente aumentati nel Regno Unito di 6,4 ( ora a 83,8 ).

 

LA POSIZIONE PATRIMONIALE ed il RAPPORTO CON IL DEBITO PUBBLICO

Il dato costituito dalla differenza tra le attività e le passività nostre verso il resto del mondo da un lato può consolarci, giacchè vede crescere gli strumenti del debito pubblico nelle mani dei non residenti, passati dai 663 miliardi del terzo semestre 2012 ai 730,6 del IV trimestre 2013 ( segno di una confermata fiducia verso il sistema Italia che non esclude la liquidabilità al primo stormir di fronda e senza preavviso ), dall’altro lato deve preoccuparci .

Infatti al dato complessivo patrimoniale di 2.364 miliardi di Euri di passività corrisponde un dato complessivo dell’attivo di soli 1.905 miliardi ed una conseguente posizione netta debitoria di – 465 miliardi, cresciuta di ben 69 miliardi  dagli ex 396 a terzo trimestre 2012 .

In altri termini se in linea teorica si dovesse realizzare la liquidazione dell’azienda Italia tra attivo e passivo faremmo registrare un deficit di 450 miliardi.

CONCLUSIONI

Questi ultimi dati dovrebbero indurre a rigorose riflessioni sulla gracilità del nostro sistema; esso è  esposto , sotto gli occhi di tutti ( tutto il mondo lo sa e tutti i mercati non lo ignorano ) , alla turbolenze finanziarie ed economiche ed agli orientamenti degli investitori che, come detto sopra, detengono ben 730 miliardi di quei titoli del macigno che opprime la nostra economia e la nostra collettività frutto della spensierata gestione della nostra cosa pubblica di un ventennio.

Il collante che ci sostiene è dato solo dalla fiducia e dal valore che riusciamo a creare come paese giorno per giorno in attesa di soluzioni serie che tardano ad arrivare.

Il vero problema è il debito.

Bollettino n°34